Parecchi anni fa il monte apparteneva a un tale di Cusio, un Paleni, un Rovelli o a un altro di quegli abitanti della piccola comunità posta alla sommità della Valle Averara. Una cosa è certa: quel tale era una persona assai gretta e taccagna ed era conosciuto in tutta la valle proprio per la sua non comune avarizia, al punto che la gente aveva preso a chiamarlo "Avarù". Veniva segnato a dito perché faceva i salti mortali per non pagare le tasse e per giunta non sganciava mai un soldo per contribuire alle necessità della parrocchia, anzi, per paura di dover fare l'elemosina al sagrestano, si era ridotto a non andare nemmeno più in chiesa.
La cosa suscitava le critiche severe del parroco e i commenti scandalizzati dei compaesani che cominciarono a non rivolgergli più la parola e ad evitarlo, costringendolo a vivere da solo come un eremita tra le sue ricchezze. L'avaro era proprietario di un alpeggio dove portava ogni anno la sua mandria, ma il pascolo era piuttosto sterile, essendo ricoperto di grossi macigni sparsi dappertutto, tanto da assomigliare quasi a una vasta pietraia in cui facevano capolino, qua e là, radi ciuffi d'erba.
La gente, che conosceva lo stato non proprio florido di quel monte, ne parlava spesso, in termini non certo compassionevoli, quasi a voler sottolineare la rivincita dell'alpeggio sulla taccagneria del suo proprietario. "Chèl che s' fa 'l vé rendì" esclamavano gli altri mandriani con malcelata soddisfazione quando vedevano tornare dal monte le bestie dell'Avaro, stanche e ridotte a pelle e ossa. Col passare degli anni, per analogia con l'indole del suo proprietario, i cusiesi presero a chiamare quell'alpeggio il "Monte Avaro". Un'estate nella quale l'erba era più scarsa del solito e le mucche avevano grosse difficoltà a nutrirsi, il mandriano fu preso dalla disperazione e una sera, seduto fuori dalla sua baita, più avvilito che mai, mormorò fra sé: "Darei la mia anima al Diavolo se in cambio potessi ripulire la montagna da tutto questo pietrame". Non aveva nemmeno finito di pronunciare queste parole che, alle sue spalle, sentì un forte boato che fece tremare la terra. Vicino a lui si aprì un profondo cratere da cui uscì, avvolto in una densa nuvola nera, il Diavolo in persona, con le sembianze di un immane e orrendo caprone, sotto un velloso arruffio di peli lunghi e ricciuti dai riflessi rossastri; le enormi cosce equine finivano con stinchi e unghie fesse da caprone, mentre le braccia aperte appoggiavano le vaste mani adunche e splendenti come brace agli spigoli della roccia, che friggeva liquefacendosi e sgocciolando come cera.
La grossa testa caprina s’appuntiva in una barbetta fuligginosa e sfilacciata, mentre sulla fronte spettrale livida e pelata si ergevano due corna tozze con le punte divaricate e rovesciate indietro. Sotto l’arco enorme di sopracciglia cespugliose color ocra gialla, le occhiaie si sprofondavano in un imbuto verdastro, in fondo al quale brillava sinistramente una pupilla di fuoco, iridata di rosso sanguigno. Tra due zigomi cadaverici, nasceva un naso adunco come il becco di un avvoltoio, con le narici dilatate e scoperte come due piaghe oblunghe e purulente. Sotto il naso, radi peli rossicci e setolosi come baffi leonini, sormontavano una bocca larga fino alle due orecchie enormi, a conchiglia; dalle labbra, schifosamente gonfie e bavose, uscivano quattro zanne corrose, giallastre, adunche come quelle del cinghiale; quando apriva quella voragine esalava zaffate di vapori densi e puzzolenti. "Ai tuoi ordini” gridò con voce cavernosa rivolto all'avaro, impietrito per lo stupore e lo spavento “dammi la tua anima e io ti ripulisco il monte così bene da farlo diventare il pascolo più bello di tutta la vallata”. L'Avaro, che fino a un attimo prima avrebbe accettato di scendere a patti col Diavolo, adesso, di fronte alla prospettiva di vedere concretizzato il suo sogno, fu preso dal panico. In fin dei conti la sua anima, sul punto di diventare merce di scambio per una banale questione d’interesse, doveva pure avere il suo valore se il principe delle tenebre era disposto a sobbarcarsi una fatica così improba per averla. E poi si ricordò che il suo parroco, quelle poche volte che aveva avuto l'occasione di sentirlo, durante la messa o la dottrina, ripeteva sempre che l'anima è infinitamente più preziosa del corpo, vale molto di più di tutte le ricchezze terrene e per giunta è immortale: "Chi perde l'anima andrà all'Inferno, dove dovrà bruciare per tutta l'eternità!". E adesso lui stava addirittura cedendo volontariamente la propria anima al Diavolo, per accrescere la ricchezza terrena: "Ma l'anima è importante, non voglio perderla, non voglio andare a bruciare all'Inferno". Il suo interlocutore, vedendolo titubante, lo incalzò: "Ma và là, non dare ascolto a tutto quello che ti dicono. E' tutta una scusa inventata dai preti per carpirti i tuoi soldi e impedirti di godere appieno delle gioie della vita". E stuzzicando la sua avidità soggiunse: "E' un affare da non perdere, pensa ai soldi che ne potrai ricavare, prova ad immaginare quanti anni ti ci vorrebbero per fare questo lavoro da solo, considera invece che già da questa estate tu potrai far pascolare le tue bestie su un terreno tutto dissodato e fertile". L'uomo si voltò ad osservare il vasto pianoro disseminato di macigni e lo immaginò per un momento tutto coperto d'erba verde e di fiori, con la sua mandria intenta a pascolare al suono dei campanacci. Questa visione fu talmente convincente che alla fine l'avaro cedette e accettò il patto col Diavolo. Però pose una condizione: "Ebbene, se dall’Ave Maria (Berlicche si contorse ululando) di questa sera a quella di domani mattina, tu mi dai il monte ripulito,…ebbene, sì, alla mia morte, l’anima mia sarà tua. Ma, intendiamoci bene, lo voglio così netto che non rimanga traccia di ghiaia; e anche queste rocce più grandi e quelle laggiù, le voglio via…, altrimenti tu non avrai alcun diritto sulla mia anima". Egli era infatti convinto che sarebbe stato impossibile, non dico finire, ma anche solo arrivare a metà di un lavoro così improbo, per cui, alla fine gli sarebbe rimasta la sua anima e avrebbe avuto il monte almeno in parte ripulito. Era meglio che niente. Ma non aveva fatto i conti con l'astuzia del Diavolo che non aveva precisato in quanti sarebbero stati a svolgere questo lavoro. Così, appena furono calate le tenebre, il Monte Avaro si riempì di ombre che si misero al lavoro di buona lena e in assoluto silenzio. Erano decine di figure demoniache con corpi deformi, obesi e scheletrici, arroventati e vellosi, dalle cui bocche mostruosamente armate di dentature ghignanti, col puzzo, il fumo e le vampe serpentine, uscivano anche muggiti, ruggiti e ululati spaventosi; dai loro occhi emanava una luce diafana che illuminava sinistramente la notte. “Contali!” gracchiò imperioso Berlicche, apparendo improvvisamente di fianco al povero Avarone che, più morto che vivo, ubbidì come un automa. “Uno, due, tre,…sono novantotto” rispose tremando come una foglia. “Lo so” soggiunse Berlicche “ne mancano due: Soffione e Sansone. Ora sono occupati altrove, ma a mezzanotte saranno qui”. Poi, volgendosi ai suoi compari, diede loro il via con un cenno imperioso del capo.
I macigni venivano sradicati uno dopo l'altro dalle braccia muscolose dei diavoli e fatti rotolare per la montagna; la ghiaia grandinava ovunque per i dirupi dei canaloni. Il lavoro procedeva speditamente e l'avaro cominciò a temere che sarebbe stato portato a termine entro il tempo concordato. Infatti sul far dell'alba l'impresa era quasi ultimata: mancavano solamente dei ghiaieti e delle rocce enormi piantate in mezzo al pianoro. “Queste” pensava “non riescono a smuoverle neppure i diavoli, e se restano io sono ancora salvo”. Ma ecco farsi avanti altre due figure colossali e mostruose: Soffione e Sansone. Quest’ultimo, armato di una mazza ferrata simile al tronco di un noce con la sua ceppaia all’estremità, si mosse senz’altro a calare colpi rimbombanti sulle rocce rimaste, frantumandole; l’altro, curvandosi sopra la ghiaietta di un canalone, si mise a soffiare con tanta possanza dalle sue gote gonfie e capaci come otri, che le pietre e i ciottoli volavano via come foglie secche portate dalla bufera. L'Avaro si sentì perduto. Ripensò con terrore alle parole del suo parroco e si vide dannato tra le fiamme dell'Inferno. Allora si pentì di avere stretto quel patto scellerato col Diavolo, ma forse era troppo tardi. Approfittando del fatto che Berlicche s’era voltato per vigilare la sua ciurma, il mandriano fece un ultimo tentativo per salvarsi: si segnò, si raccomandò l'anima al Signore e recitò un'Ave Maria. Poi, colto da un'improvvisa ispirazione (il suo Angelo Custode, avendo pietà di lui, certo lo sostenne), prese a correre alla disperata giù per la montagna, nell'estremo tentativo di arrivare a Cusio e suonare le campane prima che l'opera dei diavoli fosse terminata. Una corsa affannosa per sentieri impervi e fitti boschi, e finalmente poté arrivare in paese, stracciato, pesto e sanguinante per tutto il corpo. Sempre correndo si diresse verso l'abitazione del sagrestano. “Venite Matteo, discendete, presto! Portate la chiave della chiesa; suoniamo l’Ave Maria; c’è il diavolo sul monte che mi vuole portare via!”. Un'altra breve corsa verso la chiesa e nel campanile. L’Avarone si attaccò alla corda della campana più grossa e, ridendo, giù a tirare: don… don…don… Appena in tempo: ecco levarsi dal campanile di Cusio il primo rintocco dell'Ave Maria. Ancora pochi secondi e il lavoro sarebbe stato compiuto, invece un macigno era ancora lì, ai margini del pianoro. Il Diavolo dovette ammettere la propria sconfitta: diede un ululo così spaventoso che tutti i diavoli bestemmiando, urlando, urtandosi e accavallandosi, con assordante frastuono, sprofondarono, in un solo mucchio fiammeggiante, nel cratere apertosi sotto di loro e tosto richiusosi. Sansone, che aveva spaccato in due l’ultima roccia e ne aveva sollevato una metà per lanciarla lontana, la lasciò cadere di schianto accanto all’altra metà, così come si trova ancor oggi con su, visibilmente, le impronte di grinfie enormi. Sotto le potenti ardenti vampate di Soffione, il terreno era diventato così arido e duro che, per quanto lo si concimasse, è sempre rimasto tanto scarso di erba, che lo hanno chiamato Monte Avaro, a causa della stentata vegetazione e in memoria dell’Avarone.
Intanto l’Avarone, attaccato alla corda di quella campana, continuava a tirare ridendo e piangendo, finché svenne. Non si sa che fine abbia fatto: qualcuno afferma che, pentitosi della sua vita gretta e senza senso, diventò un benefattore della sua comunità, ma è probabile che, divenuto ancora più tirchio ed egoista, abbia finito i suoi giorni solo e abbandonato, senza poter gustare appieno la tranquillità della montagna. Forse il suo spirito si aggira ancora oggi, insoddisfatto, cercando inutilmente di disturbare con la sua presenza l’allegria degli escursionisti e degli sciatori che d'estate e d’inverno godono della bellezza di quella montagna.
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