giovedì 19 aprile 2018


19 aprile 2018


Facile escursione lungo mulattiere, strade lastricate e sentieri boschivi. 
Giunto a Torno affronto quella che sarà l'unica difficoltà tecnica della camminata: trovare il parcheggio. Con un po’ di fortuna e dopo il caffè al bar, inizio il cammino. 
Tra le caratteristiche viuzze del paese percorro un tratto della Strada Regia, antica via che collega Brunate a Bellagio e imbocco la mulattiera per Piazzaga. In pochi minuti mi allontano dalle ultime case del paese. Dai terrazzi si ha un bellissimo panorama sul Lago di Como. La giornata è calda e serena: riesco a fotografare il Poncione di Laglio, posto proprio sulla sponda opposta del lago. 



La mulattiera sale a gradinate aggirando la costa orientale della montagna. Sul piano di Travaina oltrepasso l’antica porta daziaria, l’unico resto della cerchia muraria che cingeva alle spalle il paese di Torno. La tradizione vuole che chi passa sotto l’arco debba pagare il dazio e collocare quindi, simbolicamente, un sasso nell’apposite nicchie dei pilastri. 


La Porta Travaina faceva parte delle fortificazioni del borgo di Torno e avrebbe anche funzionato come punto di riscossione del dazio. Come il borgo e il castello, anche la porta di Travaina fu coinvolta nella distruzione dell'11 giugno 1522, quando la città di Como, sforzesca e filospagnola, assalì il borgo di Torno che era filofrancese. Secondo le cronache del tempo a Torno andarono “in fiamme tutte le case, le chiese, ricche di quadri a oro e di organi, furono messe a nudo e profanate. Poi fu fatto rovinare il molo dai guastatori e radere al suolo i palagi. Il popolo fu dato al bando e le sostanze al fisco”. Mentre Torno veniva raso al suolo, gli abitanti di Moltrasio, sulla riva opposta del lago e alleato di Como, si misero a suonare “le campane di festa per la solennità di S. Barnaba, onde furon dall’hor in poi dai Tornaschi odiati, sotto pretesto che tal sonare si facesse per allegrezza dell’incendio della nemica terra”. 




La mulattiera, scavata nella roccia, è protetta a valle da un bel muretto, al di là del quale si cela una profonda forra, dove scorre il torrente della Valle di Stravalle. 
Pochi metri dopo la porta si attraversa su di un ponticello il fiume arrivando ad una cappelletta. Un segnavia giallo appeso al tetto dell’edificio indica l’inizio del sentiero archeologico, che in un circuito di circa due chilometri permette di ammirare in un’ora di cammino tre avelli scavati in massi erratici di granito. 



I massi avello sono dei massi erratici in cui è stata scavata una fossa destinata all'inumazione. Si trovano solo in territorio comasco e zone limitrofe. Dei 32 massi avelli classificati la maggior parte si trovano nel triangolo lariano e in brianza, altri sono stati rinvenuti in Val d'Intelvi, Val Menaggio, Val Bregaglia, Val Codera, Canton Ticino e a Como. Rappresentano un mistero archeologico in quanto non sono mai stati rinvenuti oggetti all'interno o nelle vicinanze e in nessuna leggenda o tradizione popolare vengono nominati. Sono dislocati in posizioni isolate e lontano da vie di comunicazione e non recano alcuna iscrizione. La fine tecnica di lavorazione è di tradizione romana. L'ipotesi più accreditata è che siano opere destinate alla sepoltura di personaggi importanti costruite dalle popolazioni barbariche che si stabilirono in territorio comasco dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente (486 d.C.) fra il V e VI secolo. Dei massi avello ritrovati solo uno, a Plesio sopra Menaggio, è fornito di coperchio monolitico. Profanati da tempo sono stati in seguito utilizzati come abbeveratoi. 






Percorro il sentiero pianeggiante che mi conduce all'Avello di Cascine Negrenza di serizzo ghiandone e quindi all'Avello di Negrenza, masso di granito ghiandone. Il terzo, l'Avello delle Piazze, è un grosso masso erratico in serizzo ghiandone alto 3mt con la fossa scavata sulla sommità. Una scala di legno mi consente di salirci sopra. Tutti i massi avello visitati sono colmi di acqua stagnante.



Dopo l’interessantissima visita ai reperti archeologici, riprendo il cammino circa 50 metri sopra la cappella da cui ha avuto inizio il circuito. Ora la salita si fa tosta: la mulattiera presenta un numero incredibile di gradini: da non credere! Guadagno quota su scalinata acciottolata. 
Da Piazzaga il percorso diventa più agevole. Un segnavia m'immette sul sentiero che attraverso un bosco ceduo, ricco di massi erratici depositati dal Ghiacciaio Abduano, mi conduce all’incantevole località di Montepiatto. Per la verità, il sentiero diventa presto un’ardita stradina lastricata, protetta a valle da una ringhiera verde. 

I massi erratici sono massi che si trovano "dove non dovrebbero". La loro costituzione è completamente diversa da quella delle rocce del luogo. Le rocce locali sono del tipo sedimentarie, che si sono formate con l'antica presenza del mare e degli animali marini, mentre i massi erratici sono graniti di origine vulcanica provenienti dalle alpi. Con le ere glaciali che si sono succedute le distese di ghiaccio hanno preso il posto del mare. I ghiacciai non sono statici ma, per effetto del loro peso, scivolano lentamente anno dopo anno. Questa lenta azione esercita una pressione sulle rocce circostanti causandone la rottura ed il distacco. Adagiate sul dorso del ghiacciaio i massi sono stati trasportati per millenni anche a centinaia di chilometri dal luogo di origine. Allo scioglimento del ghiaccio i massi sono stati depositati dolcemente dove il loro leggendario viaggio li ha condotti. Alcuni si trovano nelle valli, altri nei prati, altri in bilico su creste e crinali. La loro natura è così aliena al territorio che i nostri antenati li consideravano pietre magiche e luoghi di culto. Sulla loro origine è stato detto di tutto: che fossero portate dai giganti, mosse dal diluvio universale, eruttate dai vulcani, spostate con incantesimi dai sacerdoti druidici. Fu il naturalista lecchese Antonio Stoppani, verso la metà del XIX secolo il primo ad intuire l'origine dei massi erratici . 



All’ingresso della località di Montepiatto mi dà il benvenuto un grande crocifisso eretto dai Tornaschi. 
Seguendo le indicazioni mi sposto alla chiesa dedicata alla Visitazione di Santa Elisabetta che nel XVI secolo faceva parte di un convento di monache: dal sagrato si gode di ampia visuale sul lago. Un sentierino che parte alle spalle della chiesa permette di raggiungere in pochi minuti la famosa Pietra Pendula. 



Monumento Naturale sito nel Comune di Torno; 610 m s.l.m. 
È un blocco di granito ghiandone proveniente da imponenti movimenti glaciali che ne hanno reso possibile lo spostamento dalla Val Masino; la pietra poggia su un basamento di roccia calcarea locale, presumibilmente forgiata dall’uomo in modo da simulare un grande e particolarissimo fungo. 
Le sue dimensioni sono di 2x4x3 m, per un peso di 60 t circa. 

La Pietra Pendula è certamente affascinante, sia per la curiosa e misteriosa espressione geologica che possiede, sia per la collocazione all’interno di un bosco maturo di latifoglie montane, dove dominano querce, ciliegi e carpini. 
Le lettere PP incise sul masso potrebbero significare semplicemente Pietra Pendula, ma anche Proprietà Provinciale o Proprietà Privata. 
Dopo la visita al Monumento Naturale proveniente dalla Val Masino e depositato 50-60′000 anni fa, scendo lungo una ripida stradina lastricata e, superato il rudere della Ca di Biss, incontro un grosso masso erratico: la roccia di san Carlo Borromeo. 


La Roccia di san Carlo Borromeo è un masso erratico che secondo la leggenda il santo utilizzò per spiccare il volo insieme alle monache dell’antico convento di Montepiatto, salvato dalla peste nel 1598, e giungere così al Sacro Monte di Varese, dove sorgeva la casa madre delle suore. 



Prima di tornare alla macchina visito la piazza della Chiesa di Santa Tecla, davanti al porticciolo,…va beh!...una fresca birra!!...e dò un ‘occhiata…oramai stanca… alla chiesa di San Giovanni Battista del Chiodo. 


La Chiesa di San Giovanni Battista del Chiodo è in stile romanico gotico con uno splendido portale. Fu costruita nel XII secolo. Secondo la leggenda nel 1099, Alemanno, arcivescovo teutonico, al ritorno della prima Crociata, giunse a Torno. Portava con sé uno dei chiodi della croce di Gesù e la gamba di un bimbo vittima della strage degli innocenti di Erode. Dopo avervi trascorso la notte, riprese la navigazione, ma fu bloccato da una forte tempesta improvvisa e ogni volta che tentò di ripartire un altro temporale lo fermava. Finché il vescovo capì che questi erano segnali divini, che gli suggerivano di posare le reliquie sul luogo. Durante il saccheggio di Torno, il Santo Chiodo fu rubato da un soldato di ventura, ma in seguito alle sciagure che colpirono lui e la sua famiglia, decise di riportarlo indietro. Da allora fu conservato in un cassone tutt'ora presente dietro l'altare maggiore della Chiesa di S. Giovanni. Vi sono sette serrature a difesa della reliquia, le cui sette chiavi sono in consegna, una al parroco di Torno e le altre a sei fidate famiglie del paese. 

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