12. L'AZIONE DI VILLA MASNADA
GIUSEPPE PIAZZALUNGA
CANTO DEGLI ULTIMI PARTIGIANI
L’azione più nota, ma anche più tragica delle Fiamme Verdi
di “Dami”, avvenne il 26 settembre 1944: è l’assalto di Villa Masnada in
località Crocette di Mozzo (allora Curdomo). Da informazioni raccolte sul luogo
da alcuni elementi della formazione partigiana era risultato alla Villa Masnada alloggiava da
alcuni mesi un distaccamento di genieri tedeschi che avevano compiti di guardia
alle Officine Caproni di Ponte San Pietro e di controllo della produzione bellica dello stabilimento
aeronautico. Il gruppo, recandosi quotidianamente al lavoro, lasciava alla
villa due sentinelle e due autisti italiani. Al suo interno si trovavano
viveri, vettovaglie, armi, munizioni, vestiario ed equipaggiamento militare
vario, oltre a uno o più camion e persino un piccolo cannone montato su traino.
Il piano elaborato dai comandanti prevedeva che una squadra si sarebbe
appostata prima dell’alba; due partigiani travestiti da ufficiale tedesco e
relativo interprete, dopo l’uscita dei genieri, si sarebbero fatti aprire dalle
sentinelle. Nel frattempo sarebbero accorsi gli altri per immobilizzare le
sentinelle. Caricati i camion con il materiale trovato nei locali la squadra si
sarebbe allontanata rapidamente verso l’imbocco della Valle Imagna.
Le armi e l’altro equipaggiamento trafugato dovevano essere avviati sul monte Ubione, sede della formazione. L’azione era stata fissata per il ventisette, senonché due giorni prima il comandante don Antonio Milesi “Dami” ed il maggiore Giovanni Leardini “Sandro”, ufficiale di collegamento del colonnello Carlo Basile “Sergio”, furono informati che i tedeschi avrebbero abbandonato la villa. La pattuglia, costituita da ventiquattro uomini, era formata dalle squadre di Tito Spini, Albino Locatelli e Rino Bonalumi “Rino” (le squadre di Malipiero e Mazzolà non vi avrebbero preso parte per un dissenso che non riguardava solo l’operazione di Villa Masnada ma il progressivo differenziarsi delle connotazioni politiche all’interno delle forze partigiane).
Le armi e l’altro equipaggiamento trafugato dovevano essere avviati sul monte Ubione, sede della formazione. L’azione era stata fissata per il ventisette, senonché due giorni prima il comandante don Antonio Milesi “Dami” ed il maggiore Giovanni Leardini “Sandro”, ufficiale di collegamento del colonnello Carlo Basile “Sergio”, furono informati che i tedeschi avrebbero abbandonato la villa. La pattuglia, costituita da ventiquattro uomini, era formata dalle squadre di Tito Spini, Albino Locatelli e Rino Bonalumi “Rino” (le squadre di Malipiero e Mazzolà non vi avrebbero preso parte per un dissenso che non riguardava solo l’operazione di Villa Masnada ma il progressivo differenziarsi delle connotazioni politiche all’interno delle forze partigiane).
Alcuni provenivano dalla sede della brigata, il monte Ubione: erano i più esperti, poiché avevano preso parte ad azioni precedenti ed
erano fuggiti al grande rastrellamento della Val Taleggio, nel giugno 1944;
altri da Villa d’Almè; altri dal combattivo gruppo di Paladina, dove avevano in
precedenza costituito un gruppo autonomo e compiuto un analogo prelevamento di
materiale dalla caserma fascista di Ponte San Pietro. I tre gruppi si riunirono
la notte del 25 settembre a Paladina in località “morcc di spiass”. Con una
marcia notturna si avvicinarono all’obbiettivo e si appostarono tra i filari
di vite dietro il muro di cinta della villa. Da quel momento gli eventi si
svolsero in modo molto diverso da quanto previsto. Il segnale convenuto da
parte di un autista complice non arrivò e verso le otto del mattino, visto che
nessuno usciva, si decise di procedere ugualmente all’assalto. Quando i
partigiani entrarono nella villa, immobilizzarono i pochi presenti ma non
trovarono nessun automezzo, in quanto spostati altrove dai tedeschi, e si
caricarono di quanto più materiale possibile, armi, munizioni, radio,
vestiario ed equipaggiamento militare vario e presero la fuga attraverso i
campi, verso nord, destinazione Clanezzo e la Valle Imagna. L’itinerario seguito:
Colli di Mozzo, Passo della Madonna del Bosco. Nel frattempo il guardiano era riuscito a dare l’allarme al posto di blocco
situato all’ingresso della casa.
Giunti al “risöl” del Pascolo dei Tedeschi, i partigiani notarono sulla strada di Almè un movimento di camion fascisti. Visto il rischio
di venire accerchiati decisero di dirigersi sul crinale dei colli che terminava al Santuario di Sombreno, sopra la
Madonna della Castagna dove arrivarono, stremati e affamati, verso
mezzogiorno.
Nel frattempo però la zona era stata completamente
circondata dagli uomini della 612A Compagnia O.P. della G.N.R. agli ordini del
famigerato Resmini, il vero “specialista” delle operazioni contro i
partigiani e la popolazione civile: evidentemente qualcuno aveva avvisato non
solo del colpo alla villa ma anche della direzione presa dai partigiani nella
ritirata.
Decisi a non lasciare alcuna via di fuga ai ribelli,
uccisero le sentinelle e presero alla
sprovvista i partigiani, che si dispersero come poterono cercando la fuga.
sprovvista i partigiani, che si dispersero come poterono cercando la fuga.
Don Antonio Milesi diede ordine a quegli uomini, che avevano
i documenti in regola, di abbandonare le armi per trarsi in salvo ed
eventualmente cercare rinforzi da Malipiero verso Bruntino. Ma furono fermati,
traditi da alcuni oggetti che avevano trafugato dalla villa, e fucilati al muro
antistante l’asilo di Petosino il pomeriggio stesso. Si trattava dei tre
partigiani i cui nomi sono ricordati sulla lapide di fronte al Centro Civico di
Petosino: Carlo Mazzola, Giovanni Mazzola, Francesco Roncelli. Al loro nome
sulla lapide si aggiunse quello di Albino Locatelli che in un primo momento fu
risparmiato per l’intervento del fratello, Giuseppe, segretario di Resmini ed agente dei partigiani. Trasportato
in nottata alle carceri di Sant’Agata, venne dapprima torturato e nel corso della medesima
notte portato al ponte di Trezzo e, dopo
avergli sparato, i fascisti lo gettarono nell’Adda.
Nel frattempo gli uomini delle SS e della Brigata Nera
avevano iniziato a salire
verso la sommità del colle, stringendo l’accerchiamento attorno ai partigiani. Dopo poco tempo i partigiani rimasti furono individuati e iniziò lo scontro a fuoco. “Sandro” diede l’ordine di disperdersi gridando il “si salvi chi può”. Cinque partigiani caddero in combattimento: Virginio Bonadeni, Mario Capelli, Tranquillo Milesi, Giuseppe Signori, Luciano Tironi.
verso la sommità del colle, stringendo l’accerchiamento attorno ai partigiani. Dopo poco tempo i partigiani rimasti furono individuati e iniziò lo scontro a fuoco. “Sandro” diede l’ordine di disperdersi gridando il “si salvi chi può”. Cinque partigiani caddero in combattimento: Virginio Bonadeni, Mario Capelli, Tranquillo Milesi, Giuseppe Signori, Luciano Tironi.
Gli altri, circa dieci, riuscirono fuggire seguendo il
tracciato della ferrovia della Valle Brembana o mescolandosi alla folla degli
operai dello stabilimento Grès che in quel momento uscivano dall’officina. Ettore
Arrigoni si salvò nascondendosi in un
acquario per un giorno.
Incerti i caduti dalla parte avversa, anche se la relazione
della brigata Valbrembo parlava di dodici morti e numerosi feriti fra i soldati
della R.S.I. e i tedeschi.
Il fallimento e l’esito drammatico dell’azione
partigiana di Villa Masnada fù un colpoquasi mortale per la brigata e aprì una lunga diatriba tra i membri della “Valbrembo”, che accusarono alcuni capi, in particolare “Dami” e Leardini, di aver progettato l’azione con superficialità. Il più accanito nel criticare l’operato fu Malipiero, ma altri evidenzieranno la correttezza del Comando mettendo in risalto la componente degli imprevisti. I comandanti si divisero dando vita a due differenti formazioni : la “Vittorio Veneto” e la “Valbrembo”. La zona fu battuta dai rastrellamenti fascisti a caccia dei nuclei partigiani: nei due mesi successivi al 26 settembre 1944 si contavano a carico della formazione sei rastrellamenti, quindici caduti, sette prigionieri. Inoltre, era fallito il tentativo di spostare la brigata verso zone più sicure in alta montagna. Permanevano infine tutti i problemi di approvvigionamento e di equipaggiamento che avevano spinto all’azione di Villa Masnada. Il 4 dicembre don Antonio Milesi accettò l’accordo proposto dal comando tedesco che prevedeva la fine delle ostilità in cambio di salvacondotti per i comandanti (verso la Svizzera) e per gli uomini. La “Valbrembo” ritornerà ad agire solo nella fase insurrezionale.
Da L’Eco di Bergamo del 24 settembre 1994: “I partigiani
avevano sempre più bisogno di armi, in quanto salvo quelle procurate con il
prelievo dalla caserma dei Carabinieri di Villa d’Almé, il recupero era
affidato praticamente alla possibilità di incontrare militari perlomeno
isolati. Solo in seguito gli Americani si accordarono con la Resistenza per
paracadutare alcuni aiuti. Si pensò allora di mettere a segno un colpo grosso.
La scelta cadde sulla Villa Masnada di Curdomo, oggi Mozzo”.
La Relazione succinta della brigata “Valbrembo” ne riferì in
termini poco attendibili sforzandosi di trasformare in un successo il
drammatico esito dell’azione: “Assalto alla caserma delle SS di Curdomo. E’
questa l’azione di più grande stile che i patrioti bergamaschi compirono nelle
immediate vicinanze del capoluogo. La reazione germanica e fascista fu
formidabile per il danno materiale subito (un cannoncino messo fuori uso,
fucili automatici, mauser, bombe a mano, munizioni ed equipaggiamento
asportati) e forsanco fu più quello morale. Aiutato da una spia il comando
nazifascista mise in movimento circa un migliaio di uomini tedeschi, compagnia
O.P., G.N.R., e nel pomeriggio si iniziava il cruento durissimo combattimento
che si proseguiva fino a notte malgrado l’impari lotta. L’azione era stata
condotta da soli ventiquattro uomini della Valbrembo. A tarda sera i superstiti
riuscivano con abile manovra a sottrarsi all’accerchiamento nemico.
Perdite inflitte: dodici morti e numerosi feriti.
Perdite subite: nove morti e un ferito".
Critiche, polemiche, accuse si rinvennero sia nei documenti
che nelle rievocazioni a distanza di tempo: ad esse si contrapposero difese
appassionate e convinte, che le drammatiche testimonianze dei superstiti
hanno accenti e valutazioni diverse.
Dalla testimonianza del partigiano Giovanni Frana: “Noi che
siamo rimasti sul colle (eravamo una dozzina) ci disponemmo in maniera di
poterci difendere e sparavamo con sten e mitra verso ombre e figure che
potevamo intravedere fra piante e foglie, al fine di rompere l’accerchiamento.
Venni colpito da una pallottola che mi attraversò la gamba
destra e mi accorsi di perdere abbondantemente
sangue e di far fatica a muovermi. Venne vicino a me il Comandante “Dami”
che mi aiutò a spostarmi. Mentre avveniva questo, sentimmo il Mario Capelli, un
ragazzo non ancora diciottenne, che invocava la mamma; era stato colpito da
una raffica in pieno petto. Lo vidi cadere. Il Comandante mi lasciò per andare
vicino a lui e confortarlo prima di morire. Quindi mi accompagnò presso una
cascina vicina e mi lasciò per ritornare sul posto di combattimento. M’infilai
con fatica sul portico per nascondermi nel fienile. Ma il contadino, per timore
che i fascisti gli bruciassero la casa, mi scacciò.
Erano le 13 o le 14, mi nascosi nuovamente nel bosco in un
cespuglio dove mi trovò un tale di nome Prometti Santino che mi ha portato a
casa sua, dove la moglie mi curò la ferita. Il Prometti alla sera chiamò un
dottore (Giuseppe Locatelli, dottore di Sedrina) che mi medicò la ferita. Non
ho mai saputo chi fosse”.
Drammatiche le testimonianze dei sopravvissuti che rievocano
ancora con sbigottimento l’amara sorpresa della scoperta dell’accerchiamento
da parte di preponderanti forze nemiche.
Dice Valentino Roncalli: “Abbiamo cercato di prendere la via
del bosco per rimanere un po’ nascosti; poi non si pensava appunto che subito i
tedeschi e i fascisti venissero a conoscenza di questo assalto; ce ne siamo
accorti quando stavamo arrivando al “risöl” (strada acciottolata in zona
Pascolo dei tedeschi); si vedevano le camionette dei fascisti che giravano
sulla strada Curno-Mozzo-Valbrembo-Villa”.
Ricorda Vittorio Bonalumi “Rino”, caposquadra del gruppo Paladina: “Come andò l’azione, credo che non ci sia niente da dire. Ci furono
naturalmente degli errori di tattica, non di strategia, perché quando si arrivò
sul posto, di sera, preparati per fare l’azione alla mattina, mancava al-
l’appuntamento quel personaggio che era nella villa e doveva fornirci il camion
eccetera; si fece l’azione ugualmente e poi ci si incamminò verso le colline di
Mozzo per andare a fare, non so dire dichi fosse l’intenzione, una piccola
repubblica in Valle Imagna… cose assurde insomma! Strada facendo, errori se ne
commisero, perché una colonna di ventiquattro persone stracariche di materiale
bellico non potevano uscire incolumi e muoversi con celerità.
[…] Vista l’ora tarda, vista la facilità con cui eravamo
stati accerchiati, proposi di nascondere le armi e poi in gruppi di due o tre
persone cercare di salvare la pelle. Al che il “Sandro” disse che i tedeschi
non capivano niente e non ci avrebbero accerchiato […].
A questa proposta si disse: “No!” […]. Ci fu una perdita di
uomini, perdita di materiali e poi ci fu la disgregazione del gruppo […] e “Dami”
se ne andò in Svizzera”.
La lapide posta sul luogo della fucilazione a Petosino viene inaugurata il 9 ottobre 1949 nel quinto anniversario dell'eccidio. |
Delitti ed efferatezze furono commessi in particolare dalla
612A compagnia O.P. comandante da Aldo Resmini, trista figura di torturatore e
assassino.
La bestialità dei fascisti venne inequivocabilmente messa in
rilievo dal “Chronicon” del Parroco don Giacomo Carrara (Archivio parrocchiale
di Petosino).
Il parroco vi riporta la sua personale esperienza: “26-27 –
Giornate di sangue! Un gruppo di partigiani chiamati “ribelli” dai
manutengoli fascisti, in seguito a un colpo di mano non riuscito contro una
villa a Curno occupata dai tedeschi, veniva inseguito dai repubblicani fascisti
sino sulle colline prospicenti Petosino […]. Il fatto luttuoso avveniva verso
le ore 17 del 26 settembre. Io mi trovavo a Bergamo e giungevo in paese proprio
nella fase culminante della tragedia. La stazione e il viale erano ingombre di
repubblicani. Io, informato di ciò che
succedeva, prendevo l’olio santo e sul viale della stazione salivo sopra un
autocarro e amministravo l’estrema unzione alla salma di un milite repubblicano
caduto.
Quindi procedevo verso i prati e i boschi per fare altrettanto verso i partigiani caduti. Ma, con inqualificabile arbitrio, dal famigerato Resmini mi s’intimava di retrocedere, pena l’arresto. A nulla valsero le mie rimostranze. Tornai subito a casa e appena deposto l’olio santo, sento una nutrita scarica di mitraglia. Mi chiamano tra il pianto e lo spavento: era la fucilazione dei tre di cui sopra. Accorsi immediatamente e sulla fronte, ancora quasi palpitante dei tre crivellati da tanti proiettili, tracciai la sacra unzione.
Quindi procedevo verso i prati e i boschi per fare altrettanto verso i partigiani caduti. Ma, con inqualificabile arbitrio, dal famigerato Resmini mi s’intimava di retrocedere, pena l’arresto. A nulla valsero le mie rimostranze. Tornai subito a casa e appena deposto l’olio santo, sento una nutrita scarica di mitraglia. Mi chiamano tra il pianto e lo spavento: era la fucilazione dei tre di cui sopra. Accorsi immediatamente e sulla fronte, ancora quasi palpitante dei tre crivellati da tanti proiettili, tracciai la sacra unzione.
Ci s’intimò di lasciare le salme esposte!!
Più non valeva il motto famoso: ”Oltre il rogo non giunse
ira nemica”.
Ciò nonostante, feci stendere un bianco lenzuolo, verso
notte, sulle salme giacenti sulla via e al mattino presi contatti con la
Questura ed il Comune, curai la rimozione delle salme ed il recupero di quelle
esposte nei prati e nei boschi. La pia e macabra operazione durò fino a mezzogiorno, quando sette salme furono ricomposte nella Camera Mortuaria del
cimitero, mentre l’ottava fu recuperata la sera del 28 […].
Giorno 27: la nona vittima!
Due guardie repubblicane travestite, che vennero più volte
sotto le sembianze dell’agnello in casa mia lungo il giorno, sorpresero il
parrocchiano Piazzalunga Giuseppe di anni 32 profferire parole di pietà verso i caduti e lo
finirono a colpi di fucile! La salma, rimasta esposta la notte sotto il ponte
della Guisa ai Molini, fu raccolta il 28, nel pomeriggio, orrendamente
rosicchiato in volto dai topi!.
Grande il dolore e il disappunto del popolo e lo schianto
della sorella e della madre vedova”.
Certamente l’eccidio di Petosino, ancora aggravato da altri
lutti che si abbatterono sulle Fiamme Verdi della “Valbrembo” (in particolare
il ferimento, le sevizie e l’uccisione di Angelo Gotti, catturato dalla O.P. in
Valle Imagna; le vittime del rastrellamento in Valle Taleggio: Benito
Mattavelli, Giuseppe Ghezzi, Fulvio Nava e Pietro Gambirasio fucilato
successivamente; la tragica morte di Basilio Regazzoni) segnarono profondamente
e dolorosamente lo spirito del comandante.
Dalla testimonianza di don F. Perico: “Ricordo un fatto
indimenticabile quando “Dami” era ospite in casa mia e fu il giorno che venne
ucciso Angelo Gotti. Il mattino che è arrivata la notizia, ero a casa
anch’io; non mi ricordo chi avesse portato la notizia, ma ricordo la figura di don
Antonio in cucina che è scoppiato in pianto…”.
Dalla testimonianza di don T. Morgandi: “Gli faceva male il
fatto che parecchi giovani erano stato uccisi, non per colpa sua,
ma…[…].Parecchi giovani erano stati uccisi e lui se lo sentiva sulla coscienza
[…]. Ci ha sofferto…specialmente di quei giovani ammazzati sopra Petosino e che
erano i suoi, coinvolti proprio con lui…ci ha sempre sofferto…vedendo anche
gli ideali di libertà vera e propria…e di giustizia… venivano meno anche nella
società”.
Dal diario del combattente della Repubblica Sociale
Italiana Giuseppe Rigamonti: “Azione portata felicemente a termine, grazie
alle confidenze di una compagna di classe di Amelia. Suo padre, pezzo grosso
della banda “Primo Maggio” comandata dal prete bandito “Dami”, confida alla moglie, presente la figlia, che hanno previsto un attacco ad
un deposito tedesco per il 26/27 settembre. La figlia, studentessa presso le
suore di Via Pignolo, forse ingenuamente per dimostrare di avere un padre
importante confida alle compagne della prossima azione dei partigiani. Amelia,
anche lei ingenuamente mi confida quanto ha saputo. Fingo di non dare
importanza alla notizia; appena solo faccio rapporto al Professore, il quale
convoca il nostro Capitano perché prenda le opportune contro misure. La sera
del 26 solamente noi del primo plotone ci appostammo nei locali ormai vuoti,
tre giorni prima il tutto era stato trasportato al deposito di Ranica.
Arrivano, quando li abbiamo a tiro, iniziamo la “sinfonia” (tipo di sparatoria
a raffica in sequenza di otto colpi a soldato),vista la malparata, il “Dami”,
seguito da altri eroi come lui, si dà a precipitosa fuga, gli altri, rispondono
al fuoco. Nonostante contino già diversi caduti, continuano a sparare, sono i
primi “cristiani” che finora ci danno del filo da torcere. Il fuoco sta
scemando, quando assistiamo ad un atto di valore: un partigiano, visto il suo
compagno cadere, ne ha preso il posto e l’arma, continuando a sparare finché
non è caduto lui stesso. Questo eroe, di fronte alla codardia dei suoi capi, ha
continuato a combattere finché non è caduto con l’arma in pugno lui stesso.
Noi, suoi nemici, ci inchiniamo al suo valore!”.
La fine dello scontro a fuoco non interruppe l’opera
repressiva condotta dalla 612A Compagnia O.P. Anzi, come in analoghi episodi,
segnò l’inizio della sua fase più importante: il terrore nei confronti della
popolazione civile, la trasmissione del messaggio “nessuna collaborazione coi
banditi, né materiale né morale, rimarrà impunita”.
Innanzitutto i corpi dei partigiani uccisi, fucilati o
caduti nello scontro a fuoco, furono lasciati esposti per preciso ordine di
Resmini. Solo il giorno successivo la popolazione locale osò ricomporli presso
il cimitero. Il giorno successivo, 27 settembre 1944, la O.P. continuò le
operazioni di rastrellamento sui colli di Bruntino alla ricerca di altri nuclei
della brigata Fiamme Verdi “Valbrembo” che riuscirono a sfuggire alla caccia.
Lo steso giorno diversi agenti dell’Ufficio Politico si
mescolarono alla folla “per raccogliere le impressioni del pubblico”. Nella
camera mortuaria del cimitero sorpresero un cittadino, Giuseppe Piazzalunga,
mentre esprimeva ad alta voce la sua indignazione: dopo avergli intimato di
fermarsi gli spararono a bruciapelo mentre tentava di fuggire. Questo uno stralcio della sentenza di condanna dei responsabili da parte della Corte di assise Straordinaria: “Innanzi alla folla i due fermarono il Piazzalunga e gli intimarono di
seguirlo. Forse paventando la sua triste fine costui, dopo fatti alcuni pasi,
tentò di sfuggire alle loro mani. I due gli spararono contro dei colpi di
rivoltella ferendolo gravemente. Riacciuffatolo lo riportavano sulla strada
maestra e qui, fermato un carro che vi transitava, lo caricarono sopra, sordi
ai lamenti di lui che invocava e chiedeva di essere accompagnato a casa. Ma,
fatta poca strada, poiché il Piazzalunga, straziato dalla sete, chiedeva un po’
d’acqua, essi lo posero giù dal carro e lo adagiarono nel cortile di tal
Tassotti Luigi, invitando costui a dargli un bicchiere d’acqua. Fatto ciò lo
rimisero sul carro e ripresero la strada di Bergamo. Ma di lì a poco rimisero a terra il Piazzalunga
e, condottolo di forza ad una fossa sul margine della strada ferrata, lo
uccisero sul luogo, come un cane, a colpi di rivoltella, gridando ed ordinando
a quelli che passavano nei pressi di non ricomporre il cadavere senza un
ordine. La mattina dopo questo fu ritrovato, con la testa in parte scarnificata
e rosicchiata da cani o topi. Fu rimosso da cittadini inorriditi da tale
abominevole delitto”. I responsabili, inizialmente condannati a morte, furono
graziati e riacquistarono la libertà dopo dieci anni di carcere.
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