giovedì 3 marzo 2016

12. L'AZIONE DI VILLA MASNADA
GIUSEPPE PIAZZALUNGA
CANTO DEGLI ULTIMI PARTIGIANI

L’azione più nota, ma anche più tragica delle Fiamme Verdi di “Dami”, avvenne il 26 settembre 1944: è l’assalto di Villa Masnada in località Crocette di Mozzo (allora Curdomo). Da informazioni raccolte sul luogo da alcuni elementi della formazione partigiana era risultato alla Villa Masnada alloggiava da alcuni mesi un distaccamento di genieri tedeschi che avevano compiti di guardia alle Officine Caproni di Ponte San Pietro e di controllo  della produzione bellica dello stabilimento aeronautico. Il gruppo, recandosi quotidianamente al lavoro, lasciava alla villa due sentinelle e due autisti italiani. Al suo interno si trovavano viveri, vettovaglie, armi, munizioni, vestiario ed equipaggiamento militare vario, oltre a uno o più camion e persino un piccolo cannone montato su traino. Il piano elaborato dai comandanti prevedeva che una squadra si sarebbe appostata prima dell’alba; due partigiani travestiti da ufficiale tedesco e relativo interprete, dopo l’uscita dei genieri, si sarebbero fatti aprire dalle sentinelle. Nel frattempo sarebbero accorsi gli altri per immobilizzare le sentinelle. Caricati i camion con il materiale trovato nei locali la squadra si sarebbe allontanata rapidamente verso l’imbocco della Valle Imagna.
Le armi e l’altro equipaggiamento trafugato dovevano essere avviati sul monte Ubione, sede della formazione. L’azione era stata fissata per il ventisette, senonché due giorni prima il comandante don Antonio Milesi “Dami” ed il maggiore Giovanni Leardini “Sandro”, ufficiale di collegamento del colonnello Carlo Basile “Sergio”, furono informati che i tedeschi avrebbero abbandonato la villa. La pattuglia, costituita da ventiquattro uomini, era formata dalle squadre di Tito Spini, Albino Locatelli e Rino Bonalumi “Rino” (le squadre di Malipiero e Mazzolà non vi avrebbero preso parte per un dissenso che non riguardava solo l’operazione di Villa Masnada ma il progressivo differenziarsi delle connotazioni politiche all’interno delle forze partigiane). 
Alcuni provenivano dalla sede della brigata, il monte Ubione: erano i più esperti, poiché avevano preso parte ad azioni precedenti ed erano fuggiti al grande rastrellamento della Val Taleggio, nel giugno 1944; altri da Villa d’Almè; altri dal combattivo gruppo di Paladina, dove avevano in precedenza costituito un gruppo autonomo e compiuto un analogo prelevamento di materiale dalla caserma fascista di Ponte San Pietro. I tre gruppi si riunirono la notte del 25 settembre a Paladina in località “morcc di spiass”. Con una marcia notturna si avvicinarono all’obbiettivo e si appostarono tra i filari di vite dietro il muro di cinta della villa. Da quel momento gli eventi si svolsero in modo molto diverso da quanto previsto. Il segnale convenuto da parte di un autista complice non arrivò e verso le otto del mattino, visto che nessuno usciva, si decise di procedere ugualmente all’assalto. Quando i partigiani entrarono nella villa, immobilizzarono i pochi presenti ma non trovarono nessun automezzo, in quanto spostati altrove dai tedeschi, e si caricarono di quanto più materiale possibile, armi, munizioni, radio, vestiario ed equipaggiamento militare vario e presero la fuga attraverso i campi, verso nord, destinazione Clanezzo e la Valle Imagna. L’itinerario seguito: Colli di Mozzo, Passo della Madonna del Bosco. Nel frattempo il guardiano era riuscito a dare l’allarme al posto di blocco situato all’ingresso della casa.
Giunti al “risöl” del Pascolo dei Tedeschi, i partigiani notarono sulla strada di Almè un movimento di camion fascisti. Visto il rischio di venire  accerchiati decisero di dirigersi sul crinale dei colli che terminava al Santuario di Sombreno, sopra la Madonna della Castagna dove arrivarono, stremati e affamati, verso mezzogiorno.
Nel frattempo però la zona era stata completamente circondata dagli uomini della 612A Compagnia O.P. della G.N.R. agli ordini del famigerato Resmini, il vero “specialista” delle operazioni contro i partigiani e la popolazione civile: evidentemente qualcuno aveva avvisato non solo del colpo alla villa ma anche della direzione presa dai partigiani nella ritirata.
Decisi a non lasciare alcuna via di fuga ai ribelli, uccisero le sentinelle e presero alla
sprovvista i partigiani, che si dispersero come poterono cercando la fuga.
Don Antonio Milesi diede ordine a quegli uomini, che avevano i documenti in regola, di abbandonare le armi per trarsi in salvo ed eventualmente cercare rinforzi da Malipiero verso Bruntino. Ma furono fermati, traditi da alcuni oggetti che avevano trafugato dalla villa, e fucilati al muro antistante l’asilo di Petosino il pomeriggio stesso. Si trattava dei tre partigiani i cui nomi sono ricordati sulla lapide di fronte al Centro Civico di Petosino: Carlo Mazzola, Giovanni Mazzola, Francesco Roncelli. Al loro nome sulla lapide si aggiunse quello di Albino Locatelli che in un primo momento fu risparmiato per l’intervento del fratello, Giuseppe, segretario di Resmini ed agente dei partigiani. Trasportato in nottata alle carceri di Sant’Agata, venne  dapprima torturato e nel corso della medesima notte  portato al ponte di Trezzo e, dopo avergli sparato, i fascisti lo gettarono nell’Adda. 
Nel frattempo gli uomini delle SS e della Brigata Nera avevano iniziato a salire 
verso la sommità del colle, stringendo l’accerchiamento attorno ai partigiani. Dopo poco tempo i partigiani rimasti furono individuati e iniziò lo scontro a fuoco. “Sandro” diede l’ordine di disperdersi gridando il “si salvi chi può”. Cinque partigiani caddero in combattimento: Virginio Bonadeni, Mario Capelli, Tranquillo Milesi, Giuseppe Signori, Luciano Tironi.
Gli altri, circa dieci, riuscirono fuggire seguendo il tracciato della ferrovia della Valle Brembana o mescolandosi alla folla degli operai dello stabilimento Grès che in quel momento uscivano dall’officina. Ettore Arrigoni si salvò nascondendosi  in un acquario per un giorno.  
Incerti i caduti dalla parte avversa, anche se la relazione della brigata Valbrembo parlava di dodici morti e numerosi feriti fra i soldati della R.S.I. e i tedeschi.
Il fallimento e l’esito drammatico dell’azione partigiana di Villa Masnada fù un colpo
quasi mortale per la brigata e aprì una lunga diatriba tra i membri della “Valbrembo”, che accusarono alcuni capi, in particolare “Dami” e Leardini, di aver progettato l’azione con superficialità. Il più accanito nel criticare l’operato fu Malipiero, ma altri evidenzieranno la correttezza del Comando mettendo in risalto la componente degli imprevisti. I comandanti si divisero dando vita a due
differenti formazioni : la “Vittorio Veneto” e la “Valbrembo”.  La zona fu battuta dai rastrellamenti fascisti a caccia dei nuclei partigiani: nei due mesi successivi al 26 settembre 1944 si contavano a carico della formazione sei rastrellamenti, quindici caduti, sette prigionieri. Inoltre, era fallito il tentativo di spostare la brigata verso zone più sicure in alta montagna. Permanevano infine tutti i problemi di approvvigionamento e di equipaggiamento che avevano spinto all’azione di Villa Masnada. Il 4 dicembre don Antonio Milesi accettò l’accordo proposto dal comando tedesco che prevedeva la fine delle ostilità in cambio di salvacondotti per i comandanti (verso la Svizzera) e per gli uomini. La “Valbrembo” ritornerà ad agire solo nella fase insurrezionale.

Sul luogo dell'eccidio di Petosino, nel comune di Sorisole, viene prima eretta una stele commemorativa, inaugurata nel 1946.
Il cippo viene completato dal monumento ideato da "Dami" e inaugurato il 9 ottobre 1949.

Da L’Eco di Bergamo del 24 settembre 1994: “I partigiani avevano sempre più bisogno di armi, in quanto salvo quelle procurate con il prelievo dalla caserma dei Carabinieri di Villa d’Almé, il recupero era affidato praticamente alla possibilità di incontrare militari perlomeno isolati. Solo in seguito gli Americani si accordarono con la Resistenza per paracadutare alcuni aiuti. Si pensò allora di mettere a segno un colpo grosso. La scelta cadde sulla Villa Masnada di Curdomo, oggi Mozzo”.

La Relazione succinta della brigata “Valbrembo” ne riferì in termini poco attendibili sforzandosi di trasformare in un successo il drammatico esito dell’azione: “Assalto alla caserma delle SS di Curdomo. E’ questa l’azione di più grande stile che i patrioti bergamaschi compirono nelle immediate vicinanze del capoluogo. La reazione germanica e fascista fu formidabile per il danno materiale subito (un cannoncino messo fuori uso, fucili automatici, mauser, bombe a mano, munizioni ed equipaggiamento asportati) e forsanco fu più quello morale. Aiutato da una spia il comando nazifascista mise in movimento circa un migliaio di uomini tedeschi, compagnia O.P., G.N.R., e nel pomeriggio si iniziava il cruento durissimo combattimento che si proseguiva fino a notte malgrado l’impari lotta. L’azione era stata condotta da soli ventiquattro uomini della Valbrembo. A tarda sera i superstiti riuscivano con abile manovra a sottrarsi all’accerchiamento nemico.
Perdite inflitte: dodici morti e numerosi feriti.
Perdite subite: nove morti e un ferito".

Critiche, polemiche, accuse si rinvennero sia nei documenti che nelle rievocazioni a distanza di tempo: ad esse si contrapposero difese appassionate e convinte, che le drammatiche testimonianze dei superstiti hanno accenti e valutazioni diverse.

Dalla testimonianza del partigiano Giovanni Frana: “Noi che siamo rimasti sul colle (eravamo una dozzina) ci disponemmo in maniera di poterci difendere e sparavamo con sten e mitra verso ombre e figure che potevamo intravedere fra piante e foglie, al fine di rompere l’accerchiamento.
Ho visto cadere colpiti dal nostro fuoco uomini delle Brigate Nere. Non so dire quanti.
Venni colpito da una pallottola che mi attraversò la gamba destra e mi accorsi di perdere abbondantemente  sangue e di far fatica a muovermi. Venne vicino a me il Comandante “Dami” che mi aiutò a spostarmi. Mentre avveniva questo, sentimmo il Mario Capelli, un ragazzo non ancora diciottenne, che invocava la mamma; era stato colpito da una raffica in pieno petto. Lo vidi cadere. Il Comandante mi lasciò per andare vicino a lui e confortarlo prima di morire. Quindi mi accompagnò presso una cascina vicina e mi lasciò per ritornare sul posto di combattimento. M’infilai con fatica sul portico per nascondermi nel fienile. Ma il contadino, per timore che i fascisti gli bruciassero la casa, mi scacciò.
Erano le 13 o le 14, mi nascosi nuovamente nel bosco in un cespuglio dove mi trovò un tale di nome Prometti Santino che mi ha portato a casa sua, dove la moglie mi curò la ferita. Il Prometti alla sera chiamò un dottore (Giuseppe Locatelli, dottore di Sedrina) che mi medicò la ferita. Non ho mai saputo chi fosse”.

Drammatiche le testimonianze dei sopravvissuti che rievocano ancora con sbigottimento l’amara sorpresa della scoperta dell’accerchiamento da parte di preponderanti forze nemiche.

Dice Valentino Roncalli: “Abbiamo cercato di prendere la via del bosco per rimanere un po’ nascosti; poi non si pensava appunto che subito i tedeschi e i fascisti venissero a conoscenza di questo assalto; ce ne siamo accorti quando stavamo arrivando al “risöl” (strada acciottolata in zona Pascolo dei tedeschi); si vedevano le camionette dei fascisti che giravano sulla strada Curno-Mozzo-Valbrembo-Villa”.

Ricorda Vittorio Bonalumi “Rino”, caposquadra del gruppo Paladina: “Come andò l’azione, credo che non ci sia niente da dire. Ci furono naturalmente degli errori di tattica, non di strategia, perché quando si arrivò sul posto, di sera, preparati per fare l’azione alla mattina, mancava al- l’appuntamento quel personaggio che era nella villa e doveva fornirci il camion eccetera; si fece l’azione ugualmente e poi ci si incamminò verso le colline di Mozzo per andare a fare, non so dire dichi fosse l’intenzione, una piccola repubblica in Valle Imagna… cose assurde insomma! Strada facendo, errori se ne commisero, perché una colonna di ventiquattro persone stracariche di materiale bellico non potevano uscire incolumi e muoversi con celerità.
[…] Vista l’ora tarda, vista la facilità con cui eravamo stati accerchiati, proposi di nascondere le armi e poi in gruppi di due o tre persone cercare di salvare la pelle. Al che il “Sandro” disse che i tedeschi non capivano niente e non ci avrebbero accerchiato […].
A questa proposta si disse: “No!” […]. Ci fu una perdita di uomini, perdita di materiali e poi ci fu la disgregazione del gruppo […] e “Dami” se ne andò in Svizzera”.
La lapide posta sul luogo della fucilazione a Petosino viene inaugurata il 9 ottobre 1949 nel quinto anniversario dell'eccidio.
Il rastrellamento di Petosino, al di là di ogni possibile notazione critica sull’opportunità e le modalità dell’azione, rimane un terribile atto di accusa contro i fascisti, un episodio che basterebbe da solo a fare giustizia contro i  reiterati tentativi di demonizzare il partigiano e di alleggerire le responsabilità dei loro avversari.
Delitti ed efferatezze furono commessi in particolare dalla 612A compagnia O.P. comandante da Aldo Resmini, trista figura di torturatore e assassino.
La bestialità dei fascisti venne inequivocabilmente messa in rilievo dal “Chronicon” del Parroco don Giacomo Carrara (Archivio parrocchiale di Petosino).
Il parroco vi riporta la sua personale esperienza: “26-27 – Giornate di sangue! Un gruppo di partigiani chiamati “ribelli” dai manutengoli fascisti, in seguito a un colpo di mano non riuscito contro una villa a Curno occupata dai tedeschi, veniva inseguito dai repubblicani fascisti sino sulle colline prospicenti Petosino […]. Il fatto luttuoso avveniva verso le ore 17 del 26 settembre. Io mi trovavo a Bergamo e giungevo in paese proprio nella fase culminante della tragedia. La stazione e il viale erano ingombre di repubblicani.  Io, informato di ciò che succedeva, prendevo l’olio santo e sul viale della stazione salivo sopra un autocarro e amministravo l’estrema unzione alla salma di un milite repubblicano caduto.
Quindi procedevo verso i prati e i boschi per fare altrettanto verso i partigiani caduti. Ma, con inqualificabile arbitrio, dal famigerato Resmini mi s’intimava di retrocedere, pena l’arresto. A nulla valsero le mie rimostranze. Tornai subito a casa e appena deposto l’olio santo, sento una nutrita scarica di mitraglia. Mi chiamano tra il pianto e lo spavento: era la fucilazione dei tre di cui sopra. Accorsi immediatamente e sulla fronte, ancora quasi palpitante dei tre crivellati da tanti proiettili, tracciai la sacra unzione.
Ci s’intimò di lasciare le salme esposte!!
Più non valeva il motto famoso: ”Oltre il rogo non giunse ira nemica”.
Ciò nonostante, feci stendere un bianco lenzuolo, verso notte, sulle salme giacenti sulla via e al mattino presi contatti con la Questura ed il Comune, curai la rimozione delle salme ed il recupero di quelle esposte nei prati e nei boschi. La pia e macabra operazione durò fino a mezzogiorno, quando sette salme furono ricomposte nella Camera Mortuaria del cimitero, mentre l’ottava fu recuperata la sera del 28 […].
Giorno 27: la nona vittima!
I solenni funerali dei caduti delle Fiamme Verdi. In prima fila, a destra, "Dami".
Dietro le bare sfilano i compagni e la popolazione, a rendere quella testimonianza
corale di cordoglio che i fascisti avevano impedito dopo la strage.
Il corteo sfila a Villa d'Almè il 24 maggio 1945.
Due guardie repubblicane travestite, che vennero più volte sotto le sembianze dell’agnello in casa mia lungo il giorno, sorpresero il parrocchiano Piazzalunga Giuseppe di anni 32  profferire parole di pietà verso i caduti e lo finirono a colpi di fucile! La salma, rimasta esposta la notte sotto il ponte della Guisa ai Molini, fu raccolta il 28, nel pomeriggio, orrendamente rosicchiato in volto dai topi!.
Grande il dolore e il disappunto del popolo e lo schianto della sorella e della madre vedova”.
Certamente l’eccidio di Petosino, ancora aggravato da altri lutti che si abbatterono sulle Fiamme Verdi della “Valbrembo” (in particolare il ferimento, le sevizie e l’uccisione di Angelo Gotti, catturato dalla O.P. in Valle Imagna; le vittime del rastrellamento in Valle Taleggio: Benito Mattavelli, Giuseppe Ghezzi, Fulvio Nava e Pietro Gambirasio fucilato successivamente; la tragica morte di Basilio Regazzoni) segnarono profondamente e dolorosamente lo spirito del comandante.

Dalla testimonianza di don F. Perico: “Ricordo un fatto indimenticabile quando “Dami” era ospite in casa mia e fu il giorno che venne ucciso Angelo Gotti. Il mattino che è arrivata la notizia, ero a casa anch’io; non mi ricordo chi avesse portato la notizia, ma ricordo la figura di don Antonio in cucina che è scoppiato in pianto…”.

Dalla testimonianza di don T. Morgandi: “Gli faceva male il fatto che parecchi giovani erano stato uccisi, non per colpa sua, ma…[…].Parecchi giovani erano stati uccisi e lui se lo sentiva sulla coscienza […]. Ci ha sofferto…specialmente di quei giovani ammazzati sopra Petosino e che erano i suoi, coinvolti proprio con lui…ci ha sempre sofferto…vedendo anche gli ideali di libertà vera e propria…e di giustizia… venivano meno anche nella società”.

Dal diario del combattente della Repubblica Sociale Italiana Giuseppe Rigamonti: “Azione portata felicemente a termine, grazie alle confidenze di una compagna di classe di Amelia. Suo padre, pezzo grosso della banda “Primo Maggio” comandata dal prete bandito “Dami”, confida alla moglie, presente la figlia, che hanno previsto un attacco ad un deposito tedesco per il 26/27 settembre. La figlia, studentessa presso le suore di Via Pignolo, forse ingenuamente per dimostrare di avere un padre importante confida alle compagne della prossima azione dei partigiani. Amelia, anche lei ingenuamente mi confida quanto ha saputo. Fingo di non dare importanza alla notizia; appena solo faccio rapporto al Professore, il quale convoca il nostro Capitano perché prenda le opportune contro misure. La sera del 26 solamente noi del primo plotone ci appostammo nei locali ormai vuoti, tre giorni prima il tutto era stato trasportato al deposito di Ranica. Arrivano, quando li abbiamo a tiro, iniziamo la “sinfonia” (tipo di sparatoria a raffica in sequenza di otto colpi a soldato),vista la malparata, il “Dami”, seguito da altri eroi come lui, si dà a precipitosa fuga, gli altri, rispondono al fuoco. Nonostante contino già diversi caduti, continuano a sparare, sono i primi “cristiani” che finora ci danno del filo da torcere. Il fuoco sta scemando, quando assistiamo ad un atto di valore: un partigiano, visto il suo compagno cadere, ne ha preso il posto e l’arma, continuando a sparare finché non è caduto lui stesso. Questo eroe, di fronte alla codardia dei suoi capi, ha continuato a combattere finché non è caduto con l’arma in pugno lui stesso. Noi, suoi nemici, ci inchiniamo al suo valore!”.


La fine dello scontro a fuoco non interruppe l’opera repressiva condotta dalla 612A Compagnia O.P. Anzi, come in analoghi episodi, segnò l’inizio della sua fase più importante: il terrore nei confronti della popolazione civile, la trasmissione del messaggio “nessuna collaborazione coi banditi, né materiale né morale, rimarrà impunita”.
Innanzitutto i corpi dei partigiani uccisi, fucilati o caduti nello scontro a fuoco, furono lasciati esposti per preciso ordine di Resmini. Solo il giorno successivo la popolazione locale osò ricomporli presso il cimitero. Il giorno successivo, 27 settembre 1944, la O.P. continuò le operazioni di rastrellamento sui colli di Bruntino alla ricerca di altri nuclei della brigata Fiamme Verdi “Valbrembo” che riuscirono a sfuggire alla caccia.
Lo steso giorno diversi agenti dell’Ufficio Politico si mescolarono alla folla “per raccogliere le impressioni del pubblico”. Nella camera mortuaria del cimitero sorpresero un cittadino, Giuseppe Piazzalunga, mentre esprimeva ad alta voce la sua indignazione: dopo avergli intimato di fermarsi gli spararono a bruciapelo mentre tentava di fuggire. Questo uno stralcio della sentenza di condanna dei responsabili da parte della Corte di assise Straordinaria: “Innanzi alla folla i due fermarono il Piazzalunga e gli intimarono di seguirlo. Forse paventando la sua triste fine costui, dopo fatti alcuni pasi, tentò di sfuggire alle loro mani. I due gli spararono contro dei colpi di rivoltella ferendolo gravemente. Riacciuffatolo lo riportavano sulla strada maestra e qui, fermato un carro che vi transitava, lo caricarono sopra, sordi ai lamenti di lui che invocava e chiedeva di essere accompagnato a casa. Ma, fatta poca strada, poiché il Piazzalunga, straziato dalla sete, chiedeva un po’ d’acqua, essi lo posero giù dal carro e lo adagiarono nel cortile di tal Tassotti Luigi, invitando costui a dargli un bicchiere d’acqua. Fatto ciò lo rimisero sul carro e ripresero la strada di Bergamo.  Ma di lì a poco rimisero a terra il Piazzalunga e, condottolo di forza ad una fossa sul margine della strada ferrata, lo uccisero sul luogo, come un cane, a colpi di rivoltella, gridando ed ordinando a quelli che passavano nei pressi di non ricomporre il cadavere senza un ordine. La mattina dopo questo fu ritrovato, con la testa in parte scarnificata e rosicchiata da cani o topi. Fu rimosso da cittadini inorriditi da tale abominevole delitto”. I responsabili, inizialmente condannati a morte, furono graziati e riacquistarono la libertà dopo dieci anni di carcere. 

Nessun commento:

Posta un commento