sabato 12 marzo 2016

13. LA STORIA DI ANGELO GOTTI
medaglia d'oro della Resistenza
UN RAGAZZO NORMALE
PARTIGIANI

Il giovane operaio di Villa d’Almè Angelo Gotti, dipendente del locale Linificio, fu uno dei primi ad aderire alla formazione partigiana costituitasi nella primavera del 1944 attorno a don Antonio Milesi “Dami”, curato dell’oratorio e ad alcuni dirigenti del Linificio.
La brigata di “Dami” appartenente alle Fiamme Verdi, si chiamò “Valbrembo”; fissò il comando tattico alla Cascina Como, presso il Passo del Cat, sul monte Ubione e iniziò a operare nell’area compresa tra la bassa Valle Brembana e la Valle Imagna spingendosi fino a San Pellegrino e in Val Taleggio.
Fin dall’inizio Angelo ebbe parte attiva nelle principali azioni compiute dalla “Valbrembo”, partecipando anche ai tragici fatti del 26 settembre 1944, seguiti all’assalto di Villa Masnada (Crocette di Mozzo), culminato con la battaglia di Sombreno che costò la vita a ben dieci partigiani della brigata.  
Nel successivo mese di novembre la “Valbrembo” fu oggetto di un sanguinoso rastrellamento condotto dalla Compagnia Ordine Pubblico (O.P.) di Aldo Resmini. All’origine dell’operazione ci fu la cattura da parte dei fascisti, a Ponte Giurino, di un partigiano della “Valbrembo”, il quale sotto tortura rivelò l’ubicazione dei compagni che furono attaccati in due diverse località: a Sussia sopra San Pellegrino Terme e a Cascina Como. Il primo attacco si concluse con l’uccisione di due partigiani e la cattura di numerosi altri.
Subito “Dami” inviò a Cascina Como Angelo Gotti ed Emanuele Quarti, perché avvertissero la squadra di partigiani della “Valbrembo” rifugiata lassù dell’imminente rastrellamento. Giunti in prossimità del Passo del Cat, sul crinale che separa la Valle Imagna dalla Val Brembilla, i due incapparono in una pattuglia fascista della O.P. che aprì il fuoco contro di loro. Anziché fermarsi, essi cercarono scampo nella boscaglia: il Quarti riuscì a mettersi al riparo, mentre il Gotti, ferito ad una spalla, fu catturato. Riconosciuto dal partigiano traditore, che era stato costretto dal Resmini a guidare i fascisti verso le postazioni partigiane sul monte Ubione, venne a lungo violentemente picchiato, affinché confessasse i nomi e l’ubicazione dei compagni, quindi venne fucilato sul posto.
La targa sull'albero della fucilazione e il segno di uno dei proiettili.
Cosi Emanuele Quarti rievoca l’episodio: ”Giunti a circa quaranta metri dal primo casello delle formazioni, non trovammo i partigiani, bensì i fascisti che intimarono ‘mani in alto!’. Mentre istintivamente alzammo le mani, ci guardammo e dicemmo ‘scappiamo’. Ci buttammo a corpo morto correndo all’impazzata verso la valle. Io inciampai in una radice, Angelo più avanti di me venne raggiunto da una raffica di mitra ad una spalla. Rotolai in un cespuglio e rimasi immobile per ore. Sentii i fascisti passare più volte vicino, mentre sparavano all’impazzata nei cespugli, aspettandomi da un momento all’altro di essere colpito. Stavo il più fermo possibile, con la medaglia della catenina del collo stretta fra le mani. Angelo venne catturato e sentii chiamare 
la barella. Poiché era in regola con i documenti di lavoro, disse ai fascisti di essere in zona per effettuare scambi di sale con formaggi.
Sulle prime gli credettero e sembrò che lo portassero in ospedale. Sentii una voce, quella del traditore, che diceva ai fascisti che quello era la staffetta del comandante “Dami”.
A questo punto sentii il gruppo allontanarsi. I fascisti, inviperiti per non aver trovato nessuno sul Monte Ubione, si accanirono sul Gotti pestandolo col calcio del fucile e pugni per strappargli i nomi del comandante e dei compagni. Nonostante le sevizie, Angelo Gotti resistette eroicamente, non rivelando alcun nome. Venne legato ad un albero e fucilato nelle prime ore del pomeriggio”.
La signora Maria Cefis, che era la fidanzata di Angelo Gotti, riferisce i suoi ricordi del tragico episodio: “Quando è arrivato nel bosco sopra Capizzone con uno zaino sulle spalle lo hanno visto i repubblichini e gli hanno sparato: lo hanno colpito ad una spalla. Lo hanno raggiunto e ha detto loro che era in giro per legna. Lo hanno poi medicato nella cascina nel prato appena sotto il Passo del Canto; mi ha detto questo il giorno dopo la signora che abitava nella cascina.
La targa con la poesia posta nelle vicinanze del cippo.
Lo hanno lasciato libero; era appena uscito dalla cascina quando arrivò uno di Capizzone, un ex partigiano delle Fiamme Verdi, il quale disse ai repubblichini che l’Angelo era il portaordini del “Dami” e che bisognava farlo fuori. Hanno spinto Angelo sul colle, lo hanno legato ad una albero, gli hanno cavato gli occhi, gli hanno strappato le unghie pere farlo parlare; la donna della cascina lo sentiva  urlare, ma l’Angelo non parlò per non tradire i suoi compagni. Alla fine lo hanno colpito con sette pallottole nella schiena, hanno tagliato la corda con la quale lo avevano legato e l’Angelo cadde in avanti: lo abbiamo trovato così il giorno dopo in una pozza di sangue. Il mattino successivo Cesco, il fratello , più giovane di Angelo, mi dice: ‘vieni, andiamo a vedere l’Angelo perché è stato ferito’. Siamo arrivati in bicicletta fino a Capizzone, poi a piedi fino su alla cascina; la signora ci ha raccontato tutto, sentiva le sue urla dalla cascina. Siamo arrivati al colle appena sopra, lo abbiamo visto in quello stato, io mi sono sentita male. Dopo un po’ di tempo arrivarono due uomini con una scala mandati dal sindaco di Capizzone: avevamo paura, perché se arrivavano i fascisti ci potevano prendere e torturare anche noi. Disteso sulla scala lo abbiamo portato fino allo stradone, lo abbiamo messo poi su un caro avvolto in una coperta: aveva 22 anni. Nello scendere verso Villa d’Almè suo fratello Cesco ed io eravamo davanti in bicicletta; sapevo che alle Vie di Almenno S. Salvatore c’era un posto di blocco con una guardiola dei repubblichini. Io mi ero fermata qualche volata a parlare con questi giovani, erano ragazzi, e quando siamo arrivati dissi loro: ‘arriverà un carretto, non fermatelo. Ancora non sapevano di quanto era successo, e così siamo arrivati a Villa d’Almè e lo abbiamo messo nella camera mortuaria”.
Il cippo commemorativo posto al Passo del Canto,
qualche centinaio di metri sopra la Cascina Como.
Le circostanze della morte di Gotti sono riportate nella motivazione della medaglia d’oro al valore militare che venne attribuita alla sua memoria:  

”Valoroso combattente nella lotta di liberazione, distintosi fin dal l’inizio del movimento per iniziativa, per capacità di comando e per intrepido coraggio dimostrato in numerosi combattimenti, dopo 14 mesi di indefessa  attività, seriamente ferito, cadeva nelle mani del nemico. Orrendamente torturato, resisteva con sovrumana forza d’animo e intrepida fermezza, nulla rivelando. ddddddd Sanguinante e mutilato da un occhio, veniva posto davanti ai fucili del plotone di esecuzione, ma prima di cadere, con esemplare coraggio rivendicava la sua appartenenza alla formazioni partigiane e la sua fedeltà alla Patria”.
Cascina Como, in Valle Imagna (Bergamo)
23 novembre 1944.


Tratto da “I senza nome - Storie della Resistenza Bergamasca”:
Faceva freddo, quella mattina di fine novembre, ma Angelo ed Emanuele, due giovani Fiamme Verdi della brigata “Valbrembo”, avevano altro di che preoccuparsi.
Erano partiti da Villa d’Almè che faceva appena chiaro e stavano camminando di buona lena da quasi due ore. La meta era il passo del Canto, sul monte Ubione, a cavallo tra la Valle Imagna e la Val Brembilla.
Recavano un messaggio urgente di “Dami”, il giovane prete che sotto le vesti mansuete di curato dell’oratorio di Villa celava il ben più gravoso ruolo di comandante della brigata. Era stato lo stesso “Dami” a svegliarli prima dell’alba, bussando alle porte delle loro case.
“Ragazzi - aveva detto in preda a un’evidente angoscia - mi hanno appena riferito che il nostro distaccamento di Sussia è stato attaccato ieri dai fascisti, tutti i componenti della squadra sono stati catturati e portati a San Pellegrino e poi a Bergamo”.
Aveva elencato i nomi di alcuni partigiani che facevano par- te di quella squadra: “Temo che ci siano dei feriti e forse dei morti, ma anche per gli altri ci sono poche speranze, nel migliore dei casi li spediranno in Germania”. Poi aveva impartito loro alcune brevi istruzioni: “Correte su alla cascina Como e avvertite quelli del comando tattico di mettersi in salvo, perché ho ragione di credere che i fascisti attac cheranno di nuovo, forse oggi stesso”. Così dicendo aveva tirato fuori dallo zaino un pacchetto di sale: “Tenete – aveva detto consegnandolo ad Angelo – se vi dovessero fermare, di- te che state andando in montagna, come al solito, per scambiare il sale con del formaggio”.
Alla notizia del nuovo attacco, l’Emanuele era stato preso dallo sconforto: “Non abbiamo scampo - aveva esclamato - ormai hanno deciso di annientarci!”. E aveva ripensato alla tremenda esperienza di appena poche settimane prima, quando lui e la sua famiglia avevano rischiato di essere ammazzati. La sua casa era stata attaccata da un gruppo di sbandati slavi e solo l’intervento di una pattuglia della Valbrembo, casualmente sul posto in attività di perlustrazione, aveva evitato il peggio, tuttavia lui stesso, i genitori e la sorella erano rimasti feriti, anche se in modo leggero. Il giorno seguente, messi in allarme da quell’episodio, erano intervenuti i fascisti della O.P. che, non avendolo trovato, gli avevano incendiato la casa con tutte le masserizie, maltrattando e interrogando a lungo i suoi familiari. Ma questi erano stati solo episodi marginali.


Ben più funesto era stato l’epilogo di un’azione messa in atto dalla brigata alla fine di settembre. Il tentativo di disarmo di un distaccamento tedesco acquartierato nella Villa Masnada, alle Crocette di Curno, si era concluso tra gicamente: nel corso dello sganciamento verso Villa d’Almè, la squadra partigiana era stata inseguita da reparti di nazisti e fascisti e costretta a cercare scampo sui colli di Sombreno. Attaccati da più parti e accerchiati, i partigiani si erano difesi disperatamente, ma avevano avuto la peggio, lasciando sul campo una decina di morti, tra caduti in combattimento e fucilati. Una batosta tremenda, da cui la Valbrembo non si era ancora ripresa, al punto che il comando tattico si era dovuto rifugiare sul monte Ubione per sfuggire all’incalzare dei rastrellamenti e le varie squadre si erano dovute disperdere in zone ritenute più sicure. Ma era servito a poco, infatti il reparto di Sussia era stato sopraffatto e adesso con ogni probabilità sarebbe toccato a quelli di cascina Como. Bisognava far presto, forse l’attacco fascista era già cominciato. I due giovani partigiani, incuranti della fatica, superarono quasi correndo l’ultimo tratto di sentiero che li separava dal passo. Il sole, che si era alzato da poco dietro la scura propaggine meridionale delle Orobie, li colpì in viso quando sbucarono dal bosco, trovandosi allo scoperto in una piccola radura posta proprio sulla sommità del crinale. A margini del pascolo sorgeva uno sgangherato capanno di caccia, usato in quel periodo dai partigiani di Cascina Como che vi tenevano costantemente piazzate un paio di sentinelle. Fatti pochi passi nel prato, le due staffette dovettero arrestarsi di colpo. Dal capanno erano usciti quattro militi in camicia nera che correvano verso di loro, spianando il mitra e urlando a squarciagola: “Mani in alto!”. Istintivamente i due alzarono le mani, poi si guardarono negli occhi, spaventati. Fu un attimo, poi si dissero: “Scappiamo!”. E cominciarono a correre all’impazzata nel bosco, mentre sopra di loro fischiavano le pallottole degli inseguitori. Ma la corsa fu breve. L’Angelo, che era davanti, venne raggiunto da una raffica alla spalla, emise un sordo lamento e stramazzò a braccia aperte, rotolando poi per un tratto giù per il pendio. Il compagno proseguì la corsa per un breve tratto, poi inciampò in una radice, perse l’equilibrio e capitombolò per qualche metro, finendo dentro un cespuglio. Subito dopo un paio di fascisti raggiunsero l’Angelo e lo costrinsero a risalire fin sulla strada, incuranti dei suoi lamenti per il dolore che gli provocava la ferita. Altre camicie nere continuarono la ricerca di Emanuele il quale, sprofondato com’era nel cespuglio, venne casualmente a trovarsi fuori dalla vista di chi stava più in alto. Rannicchiato nel suo provvidenziale nascondiglio, il giovane partigiano sentiva i fascisti correre per il bosco, sparando all’impazzata. Aspettandosi di essere colpito da un momento all’altro, prese tra le mani la medaglietta della Madonna che portava al collo e cominciò a pregare, raccomandandosi l’anima. Rimase così, immobile e atterrito, per parecchio tempo, mentre attorno a lui infuriava l’inferno. Poi le ricerche cessarono. I militi, convinti che la loro preda avesse preso il largo, smisero di sparare e se ne tornarono sulla strada, unendosi ai compagni.




Il bosco era ridiventato silenzioso e così l’Emanuele, continuando a stare immobile e rannicchiato nel suo nascon diglio, poteva sentire distintamente le voci dei fascisti. Stavano interrogando l’Angelo. Percepì la voce di uno che gli chiedeva le generalità, poi quella di un altro che leggeva i dati anagrafici dai documenti. “Preparate una barella - ordinò quello che doveva essere il comandante - questo qui non c’entra con i banditi, i suoi documenti sono in regola, portiamolo all’ospedale”. “Sono scappati solo per paura - aggiunse un altro - pare che stessero andando dalle parti di Laxolo a scambiare del sale con un paio di stracchini”. Emanuele tirò un sospiro di sollievo. “L’hanno bevuta - mormorò con un filo di voce - meno male!”. Poi, pensando all’amico: “Speriamo che l’Angelo non stia troppo male e che se ne vadano presto, perché qui non ci resisto”. In effetti, per essere stato troppo a lungo immobile e con gli arti rattrappiti, si sentiva tutto il corpo indolenzito; le braccia parevano aver perso la sensibilità e le gambe gli formicolavano, inoltre il collo del piede, che aveva urtato una radice, gli doleva parecchio, dando l’impressione di essersi incrinato. Ma le sue speranze si tramutarono subito dopo nel più nero scoramento. Proprio mentre sembrava che quelli lassù stessero per andarsene, sentì uno che gridava: “Signor tenente, io questo lo conosco, è Angelo Gotti, un bandito, la staffetta di Dami”. Emanuele raggelò. Aveva riconosciuto la voce del traditore, uno della loro brigata, caduto nelle mani dei fascisti un paio di settimane prima, durante uno scontro a Ponte Giurino. Evidentemente doveva essere passato dalla parte del nemico e adesso, arrivato sul posto solo in quel momento, non aveva esitato a denunciare l’ex compagno. Seguì un attimo di silenzio, poi la voce del tenente echeggiò chiara e rabbiosa, mentre investiva il povero Angelo con una serie di insulti. “Bastardo, ci avevi quasi fregato, ma adesso ti concio io per le feste!”. Queste parole arrivarono nitide alle orecchie di Emanuele, accompagnate da una serie di tonfi sordi che strappavano all’amico urla selvagge di dolore. Ancora una breve pausa e poi altri colpi, forse sferrati con il calcio del moschetto, e altri lamenti. “Dimmi dove sono finiti i tuoi amici!”. “Dovevi unirti a loro? Come mai non li abbiamo trovati nel rifugio? Chi ti ha mandato?”. Le domande, incalzanti e intercalate dalle botte, rimanevano senza risposta. “Non t’illuderai di aiutarli, per caso!”. “Ormai li conosciamo tutti i tuoi amici, è questione di giorni e li facciamo fuori tutti”. “Ti conviene collaborare se vuoi salva la vita!”. Da questa parole Emanuele arguì che i fascisti non dovevano aver trovato nessuno nel rifugio di Cascina Como. Probabilmente erano arrivati troppo tardi. Meno male! Però ebbe una fitta al cuore nel rendersi conto che a guidare i rastrellatori sul posto era stato quel traditore. “Deve averli guidati anche a Sussia - pensò con rabbia - e lì hanno avuto successo”. Intanto le domande pressanti che il tenente rivolgeva ad Angelo continuavano ad essere disattese. Il prigioniero rispondeva con mugugni smozzicati, alternati a lamenti e a ripetuti dinieghi. Alla fine, stremato dalle percosse, Angelo ammise quello che i suoi aguzzini sapevano già: “Non so niente, io sono solo una staffetta e non conosco i veri nomi dei miei compagni e non sono al corrente dei piani della formazione”. Era ovviamente una bugia sacrosanta, in quanto lui conosceva assai bene quasi tutti i partigiani della Valbrembo, comandanti compresi. Era un dipendente del Linificio di Villa d’Almè, dove lavoravano altri compagni di lotta. Il capo del suo gruppo era addirittura il figlio del direttore dello stabilimento, Andrea Baudoux, senza contare i tanti amici che avevano scelto assieme a lui la strada della lotta armata da ormai oltre un anno. “Bastardo!” fu il commento del tenente. E giù un’altra dose di pugni e calci. “Tu li sai i nomi dei tuoi capi. Te li chiedo per l’ultima volta, se non rispondi ti ammazzo qui, adesso, con le mie mani!”. Emanuele, che seguiva l’interrogatorio senza perdere una parola, dedusse dall’insistenza del tenente che il traditore non doveva essere stato in grado di indicare la vera identità dei partigiani della formazione. In effetti si ricordò che quel disgraziato si era aggregato alla Valbrembo da poche settimane e in una maniera che non aveva del tutto convinto “Dami” e soci, che per questo lo avevano sempre lasciato alquanto ai margini della vita di brigata. Non era dunque da escludere che si trattasse di una spia, abilmente infiltrata nella formazione. Un bel guaio davvero! Era più che mai urgente farlo sapere a “Dami”. “Non li conosco i loro nomi veri - gridava intanto Angelo sull’orlo della disperazione - io so solo i nomi di battaglia, gli stessi che sapete anche voi: “Dami”, Gianni, Sandro…” e alternava le parole a penosi lamenti. “Va bene, l’hai voluto tu!” concluse il fascista, la cui voce giunse a Emanuele alterata da una rabbia incontenibile. Seguì un attimo di silenzio. Poi una raffica di mitra e di nuovo silenzio. Lacrime di costernazione rigarono il volto di Emanuele. A malapena riuscì a recitare tra i singhiozzi una preghiera per il suo amico che ormai, ne era certo, era stato fucilato. Ma non aveva parlato. Tese l’orecchio per cercare di captare altre informazioni, ma sentì solo il brusio dei brigatisti neri che con ogni probabilità stavano preparandosi a partire. Così fu infatti: poco dopo il brusio si attenuò, si allontanò e poi si spense del tutto. Emanuele lasciò passare ancora qualche minuto, poi si decise a uscire dal nascondiglio. Con cautela e non senza difficoltà risalì la china, scivolando più volte sul terreno coperto di foglie morte. Finalmente raggiunse la radura e poi la strada. Il sole, ormai alto nel cielo, splendeva indifferente sullo spettacolo che si presentò agli occhi del giovane partigiano. Angelo era là, ai margini della strada, legato a un tronco d’albero. Il volto orrendamente tumefatto, mutilato di un occhio, la testa piegata su un fianco, il corpo segnato dalle percosse e trapassato dalla raffica che aveva posto fine alla sua giovane vita. Angelo Gotti era un ragazzo normale, un semplice operaio. Aveva fatto la sua scelta”.

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