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ROSSAL
SANTA BRIGIDA(Valle Seriana)
Passando per la contrada Carale del prativo e ridente paese di S. Brigida, nell’Alta Valle Brembana, ed entrando per un
portone sormontato dallo stemma gentilizio di un’antica famiglia del luogo, vi
trovate in un cortiletto, ai cui lati tre o quattro gradini sconnessi, a destra
vi conducono in una cucina, a sinistra in una stalla, sia l’una che l’altra molto
rustiche e oscure. Il cortile, chiuso da muraglie decrepite, ha, di fronte
all’entrata, una colonna quadrata di tufo, la quale sostiene una rozza loggetta
da fienile, sotto cui si entra in un stanzaccia. La sua volta e le sue pareti sono ancora oggi così annerite dalla fuliggine, da esserne tutte incrostate e come solcate
da luccicanti rigagnoli di liquirizia raggrumata, segno che in antico non c’era
camino di sorta, e il fuoco si accendeva nel bel mezzo della stanza.
Qui vi era (nientemeno che circa due secoli fa) l’abitazione, o meglio il covo, di un uomo così selvatico e abbruttito, da costituire
l’orrore e il terrore del paese e della Valle d’Averara.
Era detto Rossàl, dal colore rossiccio della barba e dei
capelli.
Allampanato nella persona, sempre coperta di sordidi stracci, camminava
un po’ curvo, come fanno coloro che, col capo a certe altezze, par che temano
di dimenticarsi dei piedi. Metteva innanzi un viso emaciato e terreo che, con
addosso tutto quel pelo ispido e arruffato, color rame, con quel naso adunco e
quegli occhi incavati, resi più truci dallo strabismo, pareva quello di un
felino in cerca di preda. Cosciente della sua repellente bruttezza, pareva se ne
inorgoglisse, poiché, quando s’accorgeva che chi doveva incontrarlo scantonava
o retrocedeva, egli ghignava con una smorfia da agghiacciare il sangue. I
ragazzi ne erano terrorizzati, e ogni tanto si ammalavano di paura al solo
incontrarlo; le donne ne avevano un incubo così costante da non osare
allontanarsi di casa se non per necessità e dopo essersi raccomandate a tutta
una serie di santi preposti alla tutela personale dei buoni cristiani.
Niente chiesa, niente Pasqua, da chi sa quanti anni. Dalla
sua bocca non uscivano che parolacce e bestemmie sacrilegamente turpi: un’anima
dannata! Eppure non doveva esser sempre stato così, se aveva potuto sposare una
martire di donna di un paese vicino, da cui aveva un fior di figliolo. Ma morta
la donna in giovane età, quel caratteraccio non ebbe più freno. Viveva di
caccia, di contrabbando, di ladroneccio e di miseria. Il figlio fu allevato dai
parenti e fini per essere quasi completamente dimenticato da quel bruto che
tutti fuggivano, anche perché pericolosamente beone e manesco. Infatti quando
capitava in paese, dopo lunghe scorribande venatorie o intere settimane di
vagabondaggio per i paesi a vendere il frutto della caccia e delle sue ruberie
o a commetterne altre, non faceva che ubriacarsi, e quando era preso dal vino
non aveva più nulla di umano. Essendo corse anche delle coltellate, perfino i
discoli più spregiudicati avevano finito col temerlo e scansarlo più che
potevano. Uno scomunicato di quella fatta non poteva fare a meno di richiamare
su di sé l’interessamento di Belzebù in persona, il quale, un giorno d’autunno
in cui aveva meno da fare, tirati fuori i suoi libracci e data un’occhiata alla
partita del Rossàl, la trovò così zeppa di… note di biasimo che non c’era più
posto per altre. Mandati a chiamare quattro dei suoi più fidi subalterni,
ordinò senz’altro che gli portassero il Rossàl in carne ed ossa, perché ormai
maturo per l’inferno. Presi tra loro gli opportuni accordi, i quattro cornuti
fessipedi aprirono le loro grandi ali membranose e veleggiarono nottetempo
verso la Terra. Era la terza domenica di settembre, giorno in cui, a S.
Brigida, ricorre la sagra della Madonna Addolorata, che quei buoni montanari
festeggiano non molta devozione, previo un buon bucato, proprio di quelli che
rendono le anime candide come corporali da Messa. Si dice infatti che quel
giorno, in quel paese religiosissimo, gli stessi Angeli Custodi, tempo
addietro, si prendessero anche loro un po’ di vacanza, sciamando verso il
Paradiso come candidi aironi dalle ali d’argento. Anche quell’anno,
sull’imbrunire della sera della vigilia, mentre le tre campanine della chiesa
parrocchiale squillavano i loro festosi rintocchi, con una vocina tanto soave da
commuovere anche le rocce e le piante secolari sparse dintorno, l’aria era
piena dei frulli d’ali di quegli angeli che se ne andavano verso le stelle, tra
uno stormire di foglie dorate dell’autunno e un tepore profumato, affatto insolito
in quella stagione. Il Rossàl era l’unico a non prendere parte alla santa
letizia dei suoi compaesani. Arrivato in paese la sera di quel sabato, ubriaco
fradicio, prese il pretesto del suono delle campane che si sgolavano più del
solito nell’Ave Maria, per urlare bestemmie e improperi contro le cose più
sante. Si buttò poi a dormire come un cane sul lurido pagliericcio di foglie di
granoturco, senza lenzuola. La mattina seguente, appena desto, infilatosi il suo
schioppaccio a spalla, prese la via dei monti, mentre la gente si recava in
chiesa per le loro devozioni.
Girò inutilmente tutta la mattina, senza vedere la coda di uno scricciolo, ma nel pomeriggio, avendo raggiunto il costone della Snandra, vide, a un tiro di schioppo, non uno, ma quattro magnifici camosci, i quali, contrariamente all’istinto dei loro simili, anziché fuggire, pascolavano tranquillamente l’erba d’un ripiano erboso. Il nostro cacciatore, piuttosto stupito del fatto, prese la mira, ma una di quelle bestie alzò la testa e al Rossàl parve di sentire queste parole: “Arda de no tirà, Rossàl!” (Bada di non sparare, Rossàl). Intanto gli snellissimi quadrupedi presero a crescere stranamente e rapidamente di corporatura, tanto che il Rossàl rimase a guardarli tra il sorpreso e lo sbigottito. Ma l’istinto della presa vinse la paura e lasciò partire il colpo. Quei diavoli (è facile capire che si trattava di quei messi infernali così camuffati), ingrossando smisuratamente, parevano avvicinarsi minacciosamente, ed erano lì per dare addosso al malcapitato, quando: tin-ten-ton, tin- ten-ton. Si sentì venir su debole, ma distinto, dal campanile del lontano paese sottostante, un patetico suono di campane.
In quel momento la processione col simulacro della Vergine usciva dalla chiesa, e le campane mischiavano le loro note argentine al clangore marziale dei rauchi ottoni d’una banda, tutta pennacchi e bottoni luccicanti, venuta su da Almenno, la quale alternava le sue marce fragorose, scandite dai colpi della grancassa, al canto spiegato dei sacerdoti e del popolo. Non ci volle altro! Il quartetto diabolico scomparve in una fetida folata di fumo. Al Rossàl non rimase che tornare a casa, dentro di sé molto sconcertato, ma ancor più indispettito per la preda mancata. Quando si dice che era una pellaccia più dura del cuoio!... Se ne rifece rubando una capra in una stalla di Caprile Superiore e annegando il resto dell’emozione in una sbornia, che si prese passando da un’osteria all’altra a raccontare, non creduto, la strana avventura. Intanto i quattro inquilini di casa del diavolo erano tornati, mogi mogi e con la coda tra le gambe, da padron Berlicche a raccontare la loro disdetta e a prendersi una irosa strapazzata. Berlicche aveva appena finito di bestemmiare che, zoppicando su due gambette fragili e storte, gli si presentò un diavoletto dal viso emaciato e scialbo, appuntito come una matita da una pietosa barbetta caprina color pepe e sale; il corpo sciancato e mingherlino trascinava dietro una coda sottile e spelacchiata come quella d’un vecchio topo. Fatto uno sgarbato inchino di traverso, prese a dire spavaldamente: “Questi qua sono dei buoni a nulla e degli ignorantoni. Io ho studiato e ho più sale in zucca di tutti insieme, e saprei fare da solo quello che loro quattro non hanno fatto. Se tu, re del Tartaro, ti vuoi fidare di me, io ti porterò quel cristiano rinnegato di Rossàl, entro otto giorni”. Belzebù, prendendo la coda con ambo le mani, si pennellò, in atto di riflessione, due o tre volte il naso con il ciuffetto che ne ornava l’estremità, poi rispose rauco e cavernoso: “Va' pure, ma guai a te se torni solo!...”. Il diavoletto, che mi han detto si chiamasse Cirbéo, si toccò le due corna da camoscio come scaramanzia, aprì le sue ali da pipistrello rosicchiate agli orli, piene di buchi e di toppe e, sbattendole a strattoni faticosi, s’alzò in un volo sgangherato, come un farfallone ferito, e drizzò la prora del suo nasaccio d’avvoltoio verso il mondo dei mortali. Quella domenica di ottobre, il Rossàl tornava dalla solita caccia festiva che il sole si era già nascosto da un pezzo dietro il monte, e recava sulle spalle un bel camoscio di quasi mezzo quintale.
Arrivato nelle vicinanze di Cassiglio, prese il
sentiero che, dalla strada maestra, traversando il Piacco, saliva verso casa
sua. Cielo nuvoloso, aria afosa di scirocco. In quel momento le campane di
Cassiglio sonavano l’Ave Maria. S’era fatta notte e non c’era la luna, ma ci si
vedeva ancora abbastanza. Nella solitudine del luogo, i suoi passi strascicati
e incerti sul sentiero sassoso della macchia, risuonavano soli nel silenzio
notturno. Egli camminava più curvo del solito sotto il peso del camoscio
inerte, messo attraverso il collo, con la testa penzoloni e le zampine, due di
qua, due di là, strette nelle sue manacce rugose e nere di sudiciume. Era
stanchissimo. Si sentiva addosso una prostrazione, un'inquietudine, un
rodimento interno che non aveva mai provato e di cui non sapeva darsi ragione.
Il malessere generale gli stringeva il fiato nella strozza, gli metteva un
fremito convulso nei polsi e agli angoli della bocca, insieme a brividi
intermittenti alle spalle e al dorso. Le gambe si piegavano suo malgrado facendolo
vacillare, le tempie gli martellavano e nelle orecchie gli rintronava un rombo cupo,
continuo e molesto. Non rantolava un poco?... Guardava innanzi a sé con gli occhi sbarrati, lo sguardo fisso e
offuscato. Ad un tratto gli parve di vedere, poi vide una bestia tozza dal
pelame rossiccio, ventre e grifo aguzzo rasenti terra, camminargli innanzi. Da
dove era venuta? Gli corse un brivido più freddo nella schiena, e pensò come
sotto un incubo: “Un maialetto?...Ma di simili non ne ho mai veduti!...”.
Girò inutilmente tutta la mattina, senza vedere la coda di uno scricciolo, ma nel pomeriggio, avendo raggiunto il costone della Snandra, vide, a un tiro di schioppo, non uno, ma quattro magnifici camosci, i quali, contrariamente all’istinto dei loro simili, anziché fuggire, pascolavano tranquillamente l’erba d’un ripiano erboso. Il nostro cacciatore, piuttosto stupito del fatto, prese la mira, ma una di quelle bestie alzò la testa e al Rossàl parve di sentire queste parole: “Arda de no tirà, Rossàl!” (Bada di non sparare, Rossàl). Intanto gli snellissimi quadrupedi presero a crescere stranamente e rapidamente di corporatura, tanto che il Rossàl rimase a guardarli tra il sorpreso e lo sbigottito. Ma l’istinto della presa vinse la paura e lasciò partire il colpo. Quei diavoli (è facile capire che si trattava di quei messi infernali così camuffati), ingrossando smisuratamente, parevano avvicinarsi minacciosamente, ed erano lì per dare addosso al malcapitato, quando: tin-ten-ton, tin- ten-ton. Si sentì venir su debole, ma distinto, dal campanile del lontano paese sottostante, un patetico suono di campane.
In quel momento la processione col simulacro della Vergine usciva dalla chiesa, e le campane mischiavano le loro note argentine al clangore marziale dei rauchi ottoni d’una banda, tutta pennacchi e bottoni luccicanti, venuta su da Almenno, la quale alternava le sue marce fragorose, scandite dai colpi della grancassa, al canto spiegato dei sacerdoti e del popolo. Non ci volle altro! Il quartetto diabolico scomparve in una fetida folata di fumo. Al Rossàl non rimase che tornare a casa, dentro di sé molto sconcertato, ma ancor più indispettito per la preda mancata. Quando si dice che era una pellaccia più dura del cuoio!... Se ne rifece rubando una capra in una stalla di Caprile Superiore e annegando il resto dell’emozione in una sbornia, che si prese passando da un’osteria all’altra a raccontare, non creduto, la strana avventura. Intanto i quattro inquilini di casa del diavolo erano tornati, mogi mogi e con la coda tra le gambe, da padron Berlicche a raccontare la loro disdetta e a prendersi una irosa strapazzata. Berlicche aveva appena finito di bestemmiare che, zoppicando su due gambette fragili e storte, gli si presentò un diavoletto dal viso emaciato e scialbo, appuntito come una matita da una pietosa barbetta caprina color pepe e sale; il corpo sciancato e mingherlino trascinava dietro una coda sottile e spelacchiata come quella d’un vecchio topo. Fatto uno sgarbato inchino di traverso, prese a dire spavaldamente: “Questi qua sono dei buoni a nulla e degli ignorantoni. Io ho studiato e ho più sale in zucca di tutti insieme, e saprei fare da solo quello che loro quattro non hanno fatto. Se tu, re del Tartaro, ti vuoi fidare di me, io ti porterò quel cristiano rinnegato di Rossàl, entro otto giorni”. Belzebù, prendendo la coda con ambo le mani, si pennellò, in atto di riflessione, due o tre volte il naso con il ciuffetto che ne ornava l’estremità, poi rispose rauco e cavernoso: “Va' pure, ma guai a te se torni solo!...”. Il diavoletto, che mi han detto si chiamasse Cirbéo, si toccò le due corna da camoscio come scaramanzia, aprì le sue ali da pipistrello rosicchiate agli orli, piene di buchi e di toppe e, sbattendole a strattoni faticosi, s’alzò in un volo sgangherato, come un farfallone ferito, e drizzò la prora del suo nasaccio d’avvoltoio verso il mondo dei mortali. Quella domenica di ottobre, il Rossàl tornava dalla solita caccia festiva che il sole si era già nascosto da un pezzo dietro il monte, e recava sulle spalle un bel camoscio di quasi mezzo quintale.
Fatto sta che assestò una pedata violenta alla misteriosa
bestia che lo precedeva, la quale scomparve tra un sinistro balenare di luce
sanguigna e un tuonare fragoroso e rimbombante, accompagnato dall’improvviso
franare di macigni, di ghiaia e di terra tutto intorno. Pericolosamente
trascinato e rotolato in basso per parecchi metri, il corpo del camoscio deve
averlo riparato da urti mortali al capo e al petto. Lo spavento gli ridiede
energia sufficiente per risalire dallo scoscendimento e ritrovare il sentiero
sul quale si riavviò, reggendosi in piedi così a stento e col fiato così grosso
che un tale, incrociandolo mentre andava al roccolo, si nascose per lasciarlo
passare, credendolo ubriaco fradicio. Per farla breve: un vecchio, passando di
buon mattino davanti al portone del Rossàl per recarsi a governare le bestie
della sua stalla, vedendolo quasi spalancato, ebbe la curiosità di guardar
dentro l’andito oscuro. Alla fiammella fumosa e oscillante del lumino ad olio
che teneva in mano, prima intravide, poi, avvicinandosi non senza raccapriccio,
vide un corpo umano steso a terra supino, ai piedi della colonna da cui pendeva
il corpo di un camoscio, appeso a un grosso chiodo per i tendini delle zampe
posteriori. Scuotendo con una mano il corpo, immobile, sì accorse ch’era già
irrigidito, e, abbassando il lume, si chinò per riconoscere chi fosse.
Inorridito dall’aspetto del viso terreo, dagli occhi vitrei orribilmente
spalancati, dalla bocca contratta in un ghigno diabolico, scappò via a gridare
fuori di sé, sotto le finestre delle casupole addormentate: “Correte, è morto il
Rossàl!”. In quel momento parvero destarsi anche le tre campane della non
lontana chiesetta soprastante, per salutare le prime luci scialbe di un'alba
nuvolosa. In breve i vicini, interrogandosi a vicenda, accorsero a riempire
l’angusto cortile e a commentare con sbigottimento quella fine miseranda. Il
corpo del Rossàl fu raccolto e composto alla meglio sul lurido giaciglio della
sordida stanzaccia. Venuta la sera, quattro giovanotti, per pia usanza di
carità cristiana, vegliarono il morto, restando a chiacchierare nella cucinetta
attigua e recandosi, qualche volta, a smoccolare il lumino a olio infisso nella
parete per il manico acuminato.
A mezzanotte in punto, all’improvviso, si
scatenò un temporale, tanto furioso quanto insolito in quella stagione, cosicché tra il vento, lo scrosciare dell’acqua, i lampi e i tuoni, pareva il
finimondo. Calmatasi un po’ quella bufera e riacceso il lumicino spento da
un’improvvisa folata di vento penetrata fin là, quale non fu il pauroso stupore
dei giovani nel non trovare più il corpo del morto. Che poteva essere avvenuto? Cirbéo, il
diavolo sciancato, non dimenticando l’impegno assunto, era venuto a prendere il
Rossàl per portarlo all’inferno. E sapete che cosa fecero quei giovani per
impedire che, anche a disonore del paese, si propalasse la terribile verità di
quella notte da tregenda? Trovato nell’orto vicino un tronco di acero
abbandonato, lo sgrossarono in fretta e lo chiusero nella bara che fu portata
al cimitero, di buon mattino, accompagnata dal parroco e da poche donne che,
tra un requiem e un de profundis, commentavano la fine del Rossàl, contente in
fondo al cuore, e senza volerlo, d’esser liberate da sì cattivo soggetto. Se a
qualcuno può sembrare troppo inverosimile questa storia, io dirò che quel
furfante di Cirbéo, ritornando a casa del diavolo col corpo del Rossàl sulle
spalle, per lasciare un ricordo del fatto e per fare un maligno dispetto di par
suo ai buoni cristiani di S. Brigida, ebbe la perversa idea di appiccare il
fuoco ai boschi del Piacco, della Caurga e della Palera, i quali andarono
interamente distrutti. Dopo due secoli, solamente in questi ultimi anni, per
l’opera assidua e l’iniziativa di alcuni proprietari, quei luoghi cominciano a
ripopolarsi di nuove piante. Chi poi dubitasse del terremoto avvenuto alle “Tre
Corne” nella notte tremenda, non ha che da fare un sopralluogo. Il franamento
del terreno, il così detto “Gerù”, è ancora li a testimonio della lontana
tragedia infernale.
"Se il Diavolo non esiste, ma l'ha creato l'uomo, credo che egli l'abbia forgiato a propria immagine e somiglianza".
Fedor Dostoevskij
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