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LA CACCIA DEL DIAVOLO
o CACCIA MORTA
o CACCIA SELVATICA.
Vari paesi delle valli
o CACCIA MORTA
o CACCIA SELVATICA.
Vari paesi delle valli
Una leggenda assai popolare in varie località della Bergamasca è quella della “caccia del diavolo”. In certe ore
della notte si potevano sentire su per le montagne dei gruppi di cani che scorrazzavano,
abbaiando rabbiosamente di qua e di là, come se stessero inseguendo la
selvaggina. Nessuno li aveva mai visti, si potevano solo sentire i loro latrati (1),
ma si assicura che chi si trovava a passare da quelle parti poteva anche
imbattersi sul loro percorso e doveva scansarsi precipitosamente se non voleva
essere travolto dalla furia famelica di quei segugi indiavolati.
Per la verità non si trattava di cani, ma di anime
confinate. Precisamente erano le anime dannate di quei cacciatori del paese che
in vita “impiccavano” la S. Messa nei giorni di precetto festivo per coltivare
la loro passione correndo dietro agli uccelli e alla selvaggina. Dopo la morte,
erano condannati a vagare su per i monti, dando vita a un'incessante quanto
sterile caccia.
Si tratta di un efficace esempio di pena del contrappasso,
degna di figurare in qualche infernale girone dantesco, tanto più che da
qualche parte si sussurrava addirittura che alla guida di quella canaglia
scatenata ci fosse nientemeno che il demonio in persona.
Sul monte di Zogno e a
Spino anche oggi la gente assicura d’aver vista e sentita la “caccia del diavolo”
con tanto di date e circostanze, con sicurezza assoluta. La leggenda descrive i segugi guidati dal demonio sui dossi
della squallida altura della Müghéra, il monte che sta di fronte al Pizzo e al
paese di Spino, tra Ambria e S. Pellegrino, alle prese con una cagna nera,
orribile, con gli occhi fiammeggianti, in un contesto di urla infernali e
stridere di catene.
A S. Brigida, dall’apertura della caccia in poi, questi
spiriti si raccoglievano in una tègia (2) della solitaria valle di Guei e la sera,
dopo l’Angelus, sguinzagliavano i loro cani. E poi, tutta la notte, fino all’Ave
Maria del mattino seguente, si udiva, di roccia in roccia, da un bosco
all’altro, or qua or là, un frenetico
abbaiare di cani invisibili, come fossero lanciati all’inseguimento della
selvaggina; ogni tanto, i fischi e gli urli di quei cacciatori di casa del diavolo.
In altri luoghi, come a S. Pietro d’Orzio, vi diranno che gli abbaiamenti dei
cani si fanno sentire per aria, con sbalzi e folate improvvise, prima in un
punto vicino, poi subito più lontano, al lato opposto, e così via.
Una volta, a Costa Serina, un tale osò dare la voce a quella
muta abbaiante: il mattino seguente trovò appesa alla sua porta di casa
nientemeno che una gamba umana. Spaventato corse dal parroco, il quale lo
consigliò di ripetere la chiamata la notte seguente. Così fece e il macabro pezzo
anatomico sparì. Il guaio è che, dicono in alcuni paesi, con queste chiamate si
correva il rischio di morte istantanea.
A Gandino la “caccia morta” è
guidata da una donna che lasciava in omaggio brandelli di carne e ossa umane
a chi le chiedeva parte della selvaggina catturata. Più incredulo degli altri,
un tale del monte Farno, al manifestarsi del fenomeno, gridò per burla dalla
porta della stalla in cui doveva passare la notte: “Caccia morta, portami la tua
selvaggina che voglio provarla!”. Ebbe, anch’egli, la sorpresa di una coscia
umana appesa alla porta. Ne fu spaventato, ma giù in paese gli consigliarono di
coricarsi, la notte seguente, tra due suoi bambini. Così fece e,
all’avvicinarsi della canizza, sentì una voce gridargli: “Hai provato la mia
selvaggina? Sei fortunato di trovarti tra l’innocenza, altrimenti l’avresti
pagata cara”. Da allora la cascina si chiamò Proada, perché quell’uomo aveva
provata (proada), la “caccia morta”.
A Clusone e dintorni la “caccia morta” era costituita da una
muta di cani dalle forme mostruose e dagli occhi di fuoco, ululanti e fuggenti
rapidamente per le balze dei monti seguiti da ombre umane col fucile ad
armacollo.
A Castro non era formata che da quattro cani abbaianti dei
quali non si vedeva che l’ombra. Si portavano fulmineamente da una montagna
all’altra ed erano preceduti dall’ombra di un cacciatore con un lumino in mano.
Ad Ardesio, nelle sere buie, verso la Corna Rossa, si
vedrebbe vagare una bara preceduta da quattro enormi cani neri che portano in
bocca candele accese e mandano lugubri latrati.
A Clusone talvolta, ancor oggi, accade che i cani segnino una
lepre, abbaiando e dimenando la coda, ma per quanto essi corrano qua e là,
condotti dal fiuto della selvaggina, non riescono a scovare nulla. Segno, vi
diranno, che è passata la “caccia morta”. E mostrandovi le chiazze d’erba
gialliccia e stentata che si vedono in certi pascoli aridi e male coltivati,
aggiungeranno che quei cacciatori d’Averno, correndo e sparando per tutta la
notte dietro la lepre senza mai coglierla, avevano lasciato in quel modo le
tracce dei loro piedi di fuoco. All’alba rientravano nelle loro tombe, ma dove
erano passati una volta, per tutto quell’anno, niente lepri… chiedete ai
cacciatori del luogo!.
(1)L'abbaiare insistente, intenso, rabbioso, forte e prolungato del
cane.
(2)Capanna, cascina d'alpe o di mandriani.
"Non si comprenderebbe l'opera salvifica di Gesù Cristo
se si negasse l'esistenza di Satana".
se si negasse l'esistenza di Satana".
Francesco Bamonte
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