S. MARIA ASSUNTA - LOCATELLO
11. GOCCE DI STORIA (prima parte)
Gli abitanti di
Locatello e, in generale, tutti i Valdimagnini, inviano, comprano, progettano, richiedono
agli artisti delle opere d’arte per la loro Chiesa: questa è una cosa
straordinaria, che accade in tutti i paesi che vivono l’immigrazione. Quando un
individuo deve trasferirsi dal suo paese, per poter vivere e mantenere la sua famiglia,
mantiene un legame strettissimo con il suo territorio e cerca di far giungere “qualche cosa” come per alimentare
questo sentimento. A loro dobbiamo, ancor oggi, i nostri tre capolavori, ancora
presenti nella nostra Chiesa: la tela (1523) di Andrea Previtali e quella
(1536) di Agostino Facheris, detto il Caversegno, insieme ad una statua lignea
del 1500 della Madonna seduta col Bambino. Altri due capolavori sono esposti in
musei o in collezioni private: la croce astile del 1300 di Ugo Lorenzoni, detto
Ughetto da Vertova e il trittico (1528-1530) di Giovanni Busi detto il Cariani.
Se guardiamo la carta geografica della nostra zona, troviamo
da una parte le Valli Brembilla, Taleggio, Brembana e Villa D’Almè, arrivando
fino a Bergamo; dall’altra la Valle S. Martino, Caprino Bergamasco, Pontida e
la riva dell’Adda; nel mezzo la Valle Imagna, i cui paesi - racchiusi tra due
vallate - conoscono storie tra loro molto simili.
Sappiamo che questa
zona iniziò ad essere popolata e abitata in tempi molto antichi grazie ai
numerosi ritrovamenti fossili nel torrente Imagna e in alcune grotte, in primis
la Corna Coegia. Nella preistoria, regno dell’Ursus spelaeus od orso delle caverne,
sono stati trovati dei suoi reperti come un cranio, dei denti e dei resti umani
appartenenti ad un individuo giovane di sesso femminile. Dell’età del rame
(2500-2000 a.C.) degli utensili (pugnale in selce, pendagli in osso, in rame e
in conchiglia). Dell’età del bronzo (1800-1100 a.C.) un vaso in terracotta, un
rasoio quadrangolare in bronzo, numerosi frammenti di ceramica, delle punte di
freccia, delle suppellettili in osso. Il territorio della Valle presenta il più
alto numero di cavità naturali della provincia bergamasca che venivano
utilizzate come abitazione o per seppellire
i cadaveri e che ci ribadiscono la
presenza dell’uomo in questo territorio.
All’incirca cinque
secoli prima di Cristo un capo celta, Brenno, giunse a Bergamo.
Ritenendo che la città potesse rappresentare un'ottima base strategica per il
controllo delle valli e dei commerci che da lì si sviluppavano chiese la
sottomissione dell'abitato. Al rifiuto reagì espugnandola e radendola al suolo:
ancor oggi in alcune vallate della bergamasca i muri cadenti o pericolanti sono
chiamati “bregn” o “breni”, in ricordo di questo antichissimo evento.
Bergamo, in dialetto bergamasco, si dice Berghem quasi esattamente
come in celtico “berg-heim” che vuol dire la città elevata.
In alcuni nomi e parole del dialetto della valle ci sono delle
parole che sono esattamente uguali ai termini del linguaggio dei Celti. Alcuni
nostri nonni dicono ancora oggi: ”Vuoi il “brombo?” per dire l’acqua e il “Tata”
è il papà. Questo linguaggio, rimasto tale e quale, ci riporta proprio ai
vocaboli celtici: per questo abbiamo la
sicurezza attraverso i toponimi, cioè lo studio del significato e dell'origine
di un nome proprio, che qui siano vissuti i Celti.
Lo stesso Brenno si suicidò annegandosi nel fiume che da lui
prese il nome di Brembo.
Quando i primi
abitanti arrivano in questo luogo non siamo ancora nell’anno 1000. Bergamo e la
sua pianura sono interessate da una sequenza spaventosa e tremenda di invasioni
degli Ungari: un popolo nomade e invasore che, dove arrivava, razziava, saccheggiava
e devastava.
Molti abitanti della “bassa bergamasca” scapparono verso la
montagna e verso luoghi che ritenevano più sicuri. Dalla frazione di Locate –
fate attenzione a questo nome - di Ponte S. Pietro salgono verso Mapello,
Pagazzano e, scappando, arrivano in questa zona
portando con sè un pezzo del loro vissuto: le loro tradizioni, i loro
usi, i loro costumi, il nome del paese. Nelle varie lingue che si sono
sovrapposte questo nome è stato preso e sviluppato in modo armonico: leuk il
tema originario, lukos in greco, lucus in latino, leuco in gallico, leucos in
celtico, loeugh in longobardo, löck in germanico. In tutte le lingue ha lo
stesso significato: un prato circondato da un bosco, una radura.
Attraverso questo nome arriviamo a questo Locatellus in
tardo latino, riferito alla località Locate
di Ponte S. Pietro, che nel tempo diventerà
Locatello. Per la loro parlata, distinta dalle altre popolazioni presenti, hanno
meritato il titolo di “baelòcc”.
Portano con sé anche le loro devozioni: alla Madonna, a S.
Stefano e a S. Girolamo. Queste tre devozioni, che gli studiosi della storia di
Locate hanno rinvenuto nel passato, le ritroviamo sui muri della nostra Chiesa
di Locatello: un affresco interno, vicino all’ingresso della parete sud, dove
c’è la Madonna (bellissimo il suo sguardo!) con Bambino e due affreschi esterni,
sopra l’altro ingresso della parete nord, S. Stefano e S. Girolamo.
Sicuramente, verso
l’anno 1000, a Locatello c’era una piccola Chiesa, costruita da queste famiglie
giunte dalla “bassa bergamasca”, che avevano bisogno di avere un proprio punto
di riferimento. Non c’era il Comune, non c’era la struttura amministrativa come
oggi: era la Chiesa che costituiva il cuore di quella comunità.
Non ci sono rimaste tracce di quella Chiesa, ma ne abbiamo di
una successiva quattrocentesca, della quale alcuni storici locali fanno cenno e
di cui sono rimasti come “impronta” gli affreschi della Madonna e dei Santi.
Ciò che in
passato rendeva straordinaria questa valle, facendone oggetto di contesa per
molti, erano gli strategici valichi di passaggio. Troviamo un elenco di queste strade in un documento manoscritto del 1547
tra cui spicca la “Cavalcatoria” che, percorrendo il lato idrografico destro
della valle, da Almenno portava a Brumano e, per il Passo del Palio, in
Valsassina.
Altro tracciato importante di collegamento con la Valle Taleggio
era la strada che da Locatello portava a Gerosa attraverso “la al del Put” (Val
Tinella) con il ponte omonimo, tuttora esistente, che fu il primo ad essere costruito
nella valle e citato in un documento del 1538. Lungo la “Strada Imperiale”, che
da Brumano portava a Lecco, si doveva passare per tre passi: la “Porta di
Brumano” (Porta Bordenale nella cartografia del 1700), la “Passata” (Golla di
Porcherola), il Passo del “Fo”.
Un altro celebre passo, quello del “Pertus”,
consentiva il passaggio tra la Valle Imagna e la Val S. Martino. Anche il
Valico del “Grassello”, situato nel territorio di Fuipiano, tra lo Zucco di
Valbona e i Canti, aveva la sua importanza nel mettere in comunicazione con la
Val Taleggio.
Un ruolo fondamentale in tal senso era giocato dal Ponte di
Almenno o di Lemine o della Regina longobarda Teodolinda. Bortolo Belotti nella
sua “Storia di Bergamo e dei Bergamaschi” certifica l’attribuzione del ponte all’orgoglio
e all’architettura romana: ”…ponte di Almenno fabbricato più di mill’anni”.
Tuttavia nel
1493, l’anno successivo al viaggio di Cristoforo Colombo verso l’America, una
rovinosa alluvione - una vera “ira di Dio” - devastò l’intera Valle Brembana,
causando un’eccezionale piena del fiume Brembo: tutti i ponti della valle
furono distrutti, tranne quello di Sedrina. L’effetto sul Ponte di Almenno fu
il conseguente crollo di cinque archi. Resistettero solo le tre arcate centrali,
sopra le quali rimasero “…trentasei persone in continuo batticuore… durò la
furia tre giorni, onde fu necessità gettar a quei miseri il pane con le fiombe
per il loro sostentamento, finché poi calata l’acqua, con scale e funi,
s’aiutarono”. Le inevitabili conseguenze dei danni, subiti dalla struttura,
furono l’interruzione dei traffici di merci da una valle all’altra insieme all’apertura
verso i mercati di Milano e di Venezia. D’altra parte il territorio di Bergamo,
posto in mezzo alle due città, è sempre stato da queste conteso.
Sia il Ducato di
Milano, sia la Repubblica di Venezia volevano infatti disporre di una città
fortificata, che fungesse da caposaldo presso il confine. Anche la Valle Imagna
si ritrovò così ad essere contemplata nelle mire espansionistiche di due
potenze contrapposte. Quando nel 1428
Venezia, guelfa, col favore di tutti i Valdimagnini e di tutti i guelfi di Bergamo,
riuscì ad aggiudicarsi il governo della città che, peraltro, avrebbe governato
benissimo, concesse ai cittadini della Valle Imagna alcuni privilegi, come
ricorda Padre Donato Calci nelle sue “Effemeridi” del 1676/77: “…agli hommines
di Valdimagna” e di Locatello ”per la loro integrità della fede e fedeltà alla
Repubblica, difendendola contro il Duca di Milano, furono dal Doge con
privilegi, grazie e favori arricchiti e onorati”. Infatti, una volta distrutti
i nemici (i ghibellini pro Milano di Brembilla vecchia e di parte dell’omonima
valle), il governo della Serenissima accordò, per esempio, l’esenzione dal
pagamento del dazio sui trasporti delle merci. Nonostante questo riconoscimento,
Venezia non ricostruì il Ponte di Almenno. Gli abitanti di Locatello e i
Valdimagnini invocarono a più riprese la sua ricostruzione, ma al Doge non
poteva certo interessare il ripristino di una via di sbocco verso Milano,
quanto piuttosto rappresentare il solo referente. Nel 1512 venne concesso di gestire un “porto”
con il collegamento tra le due sponde effettuato da una barca.
Il ponte sarebbe stato ricostruito solo nel 1628 per
iniziativa dei Comuni della Valle Imagna condannati, di fatto, a un isolamento
durato ben 135 anni.
Una relazione del 1596 e la
lapide commemorativa posta nell’interno, documentano che nel 1561 fu consacrata
in loco una Chiesa, dipendente dalla pieve (la comunità dei battezzati compresa entro un'organizzazione
territoriale) di Almenno con l’antico titolo di S. Maria Assunta. La comunità
parrocchiale di Locatello risulta essere
una delle più antiche della valle, tra le quali vengono annoverate anche la
Chiesa parrocchiale di Corna dei Santi Simone e Giuda Taddeo e quella di
Fuipiano di San Giovanni Battista. Il luogo dove oggi sorge era il Cimitero
dell’alta valle: numerosissime furono le salme e le ossa dissepolte negli scavi
eseguiti per ingrandire il sagrato.
Gli abitanti
della Valle Imagna sono un popolo molto fiero e hanno sempre avuto un grosso
orgoglio e una gran voglia di avere delle cose belle da mettere in mostra. Diventata ormai piccola, per la
popolazione diventata vecchia, e non più abbastanza importante si decide di
costruire un’altra Chiesa. L’edificio attuale, consacrato nel 1912 dal vescovo
Giacomo Maria Radini Tedeschi, che confermava l’antico titolo e sigillava nella
mensa dell’altare maggiore le reliquie dei santi Alessandro e Innocente, fu
innalzato negli anni tra il 1836 e il 1841 e già nel 1895 si provvedeva a
prolungarla. Viene abbattuta la facciata
posteriore della Chiesa, che arrivava grossomodo dove ancor oggi c’è il pulpito, da dove avveniva la lettura ed il commento alla Parola di Dio, si tolgono tutte
le pietre e si amplia a “piè di croce”. Questa è una Chiesa ad aula unica,
senza la navata laterale, cioè lo spazio aperto secondario a lato di quello
principale, separata da esso da un colonnato o porticato, ma lo stesso si dice
a piè di croce. Si ricostruisce la faccia esterna in pietra viva squadrata a
punta, ottenendo l’attuale grande Chiesa, enorme per il paese odierno.
Le quattro cappelle finali non sono degli altari, ma sono
praticamente dei tabernacoli, in seguito ornati con un’immagine sacra.
Il campanile è sorto nel 1823 “Concordia populi aedificavit”.
Un primo concerto di cinque campane “battezzate” dal vescovo Pier Luigi
Speranza, fu reintegrato dopo la guerra da Luigi Magni di Lucca e successivamente
rifuso da Angelo Ottolina nell’attuale concerto di otto campane in “re b.”,
consacrato dal vescovo Adriano Bernareggi nel 1952.
E’ una Chiesa, se mi si può passare il termine, “fuori
misura” rispetto alla realtà per la quale è stata costruita, sia per il modesto
numero di abitanti, sia per la fede oggi in netto calo. Ma questo fatto la dice
lunga proprio sulla fierezza e sulla voglia degli abitanti di avere una Chiesa
bella e importante. A Corna la Chiesa è grande più o meno come quella di Locatello, o forse ancor più ampia
e gli abitanti ancor più pochi: è proprio questa la grande voglia di avere cose belle da mostrare. Ma fu nel anni
1930-1932 che la Chiesa si assicurò l’attuale splendore, grazie
all’intraprendenza e alla generosità di don Sebastiano Vanotti, parroco di Locatello
per ben 57 anni di apostolato. L’incarico e la direzione dei lavori per realizzare
questa chiesa “moderna” viene affidato all’ingegnere
e architetto per eccellenza Luigi
Angelini (Bergamo 1884 – Ivi 1969): un personaggio straordinario di Bergamo,
una persona che ha amato fortemente la sua città e quindi, quando lavorava, ci
metteva ”…anche l’anima”.
Viene interpellato e gli si richiede un progetto e disegna l’elegante
cupola del presbiterio. E’ un progetto molto interessante, perché non è una
cupola singola, ma con attorno anche un catino absidale. E’ difficile vedere
queste unioni di forme geometriche diverse che, messe insieme, danno un senso
di profondità e ampiezza veramente incredibili. Luigi Angelini progetta anche i
quattro altari laterali, che vengono ingranditi rispetto a “qualsiasi corpo” ci
fosse stato prima.
La portella del tabernacolo dell’altare maggiore, in legno
dipinto con fregi scolpiti e dorati, nel presbiterio, tra l’altro molto profondo,
molto ampio, molto grande come struttura con abbondante spazio, è di Renato
Bonizzi (1931) e i cinque gradini erano sormontati da una balaustra in marmo.
Interpella gli
artisti e i decoratori più importanti dell’epoca, tutti bergamaschi. In modo
particolare, chiama due artisti straordinari:
Pietro Servalli (Gandino 1883 - Bergamo 1973) che dipinge la Gloria di Maria
Assunta nella grande tazza della cupola e Vittorio Manini (S. Omobono 1888 - Bergamo 1974) che dipinge
la prima medaglia all’ingresso principale, la più smagliante di tutte, nella
volta fatta a “botte”. Dipinge anche l’affresco del catino absidale, gli
Evangelisti, tutte le altre raffigurazioni che vediamo e le quattro tele nelle
cappelle finali. Servalli è un grande e bravissimo pittore; il Manini potrebbe
essere un artista straordinario, conosciuto quanto meno in tutta Europa, ma è
un uomo molto chiuso e molto timido. La moglie, una Mazzoleni, cerca più volte
di introdurlo nell’aristocrazia milanese per fargli fare un po’ di fortuna e, probabilmente,
anche un po’ di soldi, ma lui ama talmente il suo paese al punto di rimanere
“chiuso” in esso e, di fatto, autolimitarsi. La nostra squadra di artisti
comincia a dipingere, regalando a noi posteri una Chiesa con opere d’arte
moderna.
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