giovedì 24 marzo 2016

14. LA TRAGICA RAPPRESAGLIA
DEL BAITONE DELLA PIANCA
IL PARTIGIANO

Nel dicembre del 1944 in Valle Taleggio era presente una squadra di partigiani della ex 86A brigata Garibaldi “Giorgio Issel”, frantumata dalla partenza di alcuni membri, capitanata da Franco Carrara e composta da una dozzina di uomini. 
Per i componenti della formazione si pose il problema di cosa fare: continuare la lotta da soli od unirsi ad un altro gruppo di ribelli. Su pressione del PCI bergama­sco gli uomini dell’86A si unirono alla 55A brigata “F.lli Rosselli”, operanti nella vicina Valsassina, il 23 dicembre per poi rifugiarsi in una gran­de baita, detta il Baitone, in località Pianca, sui monti tra la Valsassina e la Val Taleggio alla Culmine di San Pietro. Molti provengono dalle fabbriche di Sesto San Giovanni, Monza, Cinisello Balsamo: con loro c’è anche un gruppo di operai di Dalmine in fuga dalla pianura perché ricercati, un radiotelegrafista inglese e una interprete austriaca.
Franco Carrara "Walter"
Il 30 dicembre, quando il comando della formazione aveva deciso di riparare verso la Svizzera, giunse una terribile rappresaglia della Brigata Nera “Cesare Rodini” di Como, suddivisa in quattro squadre al comando del capitano Noseda. Te­stimonianze di superstiti suggeriscono che l’intervento dei fascisti fu propiziato da una delazione di una spia che condusse i militi repubblichini presso il rifugio dei partigiani.
Le quattro squadre bloccarono la risalita da Avolasio e Vedeseta e i sentieri da Morterone e dalla Culmine di San Pietro. Nelle prime ore del mattino entrarono nella baita sorprendendo i trentasei partigiani: la sorpresa fu totale, non venne sparato un colpo. I partigiani vennero  prima allineati all’esterno della costruzione e, dopo essere stati spogliati di ogni oggetto di valore, messi al muro per essere fucilati; solo un ordine via radio impose agli aguzzini di portarli a Introbio per l’interrogatorio, dopo una lunga marcia nella neve.
Il monumento posto all'esterno del cimitero di Maggio
Franco Carrara “Walter”, comandante della 55A “F.lli Roselli”, tentò la fuga nel tentativo di portare in salvo importanti documenti. Davanti alla baita il pendio era ripido: si buttò alla disperata, ma non andò lontano. Venne subito raggiunto da raffiche di mitra. Rialzatosi fu crivellato dai colpi dei suoi inseguitori, poi alcuni militi scesero e lo finirono. Il suo corpo  venne ritrovato, sepolto sotto la neve, da Don Arrigoni, parroco di Morterone, più di 20 giorni dopo. Tutti gli altri partigiani vennero legati ai polsi con del filo elettrico trovato in baita assieme ad altro materiale radio, ed in colonna, a piedi nudi, portati a Introbio, in Valsassina, tramite la mulattiera che dalla Culmine di San Pietro scendeva alle baite di Mezzacca e poi a Cassina Valsassina e Cremeno: da qui si raggiungeva Barzio e poi Introbio. I partigiani catturati vennero fatti transitare volutamente nei paesi fino a raggiungere la Villa Ghirardelli a Introbio.
Una volta giunti a destinazione, dopo un faticoso cammino, vennero interrogati con tutte le rituali violenze e, alla mattina della domenica  del 31 dicembre, vennero caricati su due camion che partirono verso Lecco. I camion, passato il paese di Pasturo, al Ponte della Frolla lasciarono la strada principale e salirono a Barzio, da dove si diressero nei pressi del cimitero.
Vennero fatti scendere dieci partigiani assieme a Leopoldo Scalcini “Mina”, il più maltrattato negli interrogatori, mentre Francesco Magni “Francio” venne spedito a Lecco nelle mani dell’Ufficio Politico Investigativo.
Gli undici partigiani furono immediatamente fucilati lungo il muro del cimitero, cosicché il sacerdote arrivò quando il plotone di esecuzione aveva già concluso la sua opera.
Si trattava di Carlo Battaglia, Giuseppe Esposito, Costantino Figini, Renzo Galli, Giancarlo Ganzinelli, Licinio Milocco, Giuseppe Pennati, Silvio Perotto, Remo Sordo, Mario Pallavicini e Carlo Bellolio.
Le lapidi poste in ricordo e memoria all'esterno del cimitero di Barzio
I camion ripartirono in direzione di Cremeno. Passato il Ponte della Vittoria, arrivarono a Maggio, appena fuori Barzio, dove il posto di blocco del locale presidio fascista reclamò cinque partigiani da torturare per divertirsi. Gliene furono consegnati tre: Felice Beltramelli, Rocco Lombardo e Augusto Rocchetti. I camion ripartirono mentre i tre furono fatti sfilare tra le case della frazione e poi fucilati al cimitero. Il convoglio proseguì poi per Como dove arrivarono i restanti partigiani che vennero in seguito tradotti a Milano presso il carcere di San Vittore.
Consultando i registri del carcere di San Vittore emerge che il giorno 9 gennaio 1945 entrarono nel carcere dodici persone che possono essere fatte risalire ai partigiani catturati alla Pianca.
Dai registri risulta anche che il 22 marzo 1945 cinque partigiani furono deportati verso la Germania mentre gli altri sette, dei quali non si indica la destinazione, vennero assolti.
Ad aggravare ancora le sorti dell’86A brigata furono le esecuzioni di tre vecchi membri “Romeo”, “Remo” e “Bela”, catturati e uccisi a Crescenzago (nel milanese) rispettivamente il 20 febbraio i primi due e il 14 marzo 1945 il terzo.

lunedì 21 marzo 2016

U.O.E.I. - Bergamo
20 marzo 2016
Da CASENDA a CHIAVENNA lungo il fiume Mera

Vorrei ricordare a quei pochi che ancora non lo sanno
che oggi è lGIORNATA INTERNAZIONALE DELLA FELICITA'.
Si celebra in tutto il mondo il 20 marzo di ciascun anno ed è
stata istituita dall'ONU il 28 giugno 2012.

Ridi sempre, ridi,
fatti credere pazzo, ma mai triste.
Ridi, anche se ti sta crollando
il mondo addosso
continua a sorridere.
Ci sono persone che vivono
per il tuo sorriso e altre
che rosicheranno quando
capiranno di non essere
riuscite a spegnerlo.
 Roberto Benigni

Una tranquilla camminata lungo il lato destro del Mera, con scarso dislivello, allietata da un cielo blu e un sole caldo che ha aperto la stagione alla buona birra...in estate aggiungeremo la gazzosa!
Tante testimonianze di come vivevano un tempo i nostri nonni:...
...ogni giorno bisognava portare acqua e fieno agli animali della stalla,... 
...tenere coltivato l'orto, la vite e le piante da frutto....
...e solo al tramonto concedersi una pausa!
La vita, soprattutto nelle valli, era laboriosa ma tranquilla,...
...la stalla e il fienile erano una cosa unica con la casa,...

...in ogni piccolo raggruppamento di case vi era una santella o un affresco
sulla parete, segno di  una grande devozione religiosa.

Le "strade" erano ben tenute, delimitate da muri a secco e piccole scalinate
che collegavano ai prati o ai boschi superiori,...
...e le necessità, come la pigiatura dell'uva,  erano vissute insieme come un'unica grande famiglia.
Il fiume aveva una grandissima importanza,...
...i morti erano rispettati e riposavano in pace,...

...ed i sogni dei vivi, con fatica, diventavano realtà.
Era il tempo dove le balle erano di fieno e non come oggi che le persone te le fanno girare!.

Gli Angeli scendevano più frequentemente sulla terra,...
...ed i castelli avevano il loro fantasma...
...magari su una sedia a dondolo!
E dove finalmente si arrivava a Chiavenna con le prime visioni mistiche dovute  alla stanchezza!
Ma con un buon gelato...tutto passa!
 Vorrei ringraziare le Charlie's Angels della UOEI per le foto e auguro a loro e a tutti/e pace e serenità per una Buona Pasqua.

martedì 15 marzo 2016

LA RELIGIONE PASTAFARIANA


Il pastafarianesimo è una vera religione. E’ esistita in segreto per centinaia di anni e solo ultimamente è stata rivelata la sua esistenza: “Con migliaia se non milioni di devoti credenti, la Chiesa è largamente considerata una religione legittima, anche dai suoi oppositori - principalmente Cristiani fondamentalisti - che hanno accettato che il nostro Dio ha delle palle più grandi del loro Dio”.

Creata dal trentacinquenne Bobby Henderson, laureatosi in fisica all'Oregon State University, per protestare contro la decisione del consiglio per l'istruzione del Kansas dell’insegnamento obbligatorio del Creazionismo (l'Universo, la Terra e tutti gli organismi viventi originano da atti specifici di creazione divina, come riportato nella Bibbia) nei corsi di scienze come un'alternativa alla Teoria dell'Evoluzione (processi naturali) cosicchè "i bambini potessero farsi un idea da soli sulla realtà delle cose, confrontando diversi punti di vista".
Professò di credere in un creatore sovrannaturale molto somigliante a degli spaghetti con le polpette. Nella stessa lettera, elaborò la tesi che tale essere soprannaturale fosse solito alterare i risultati delle datazioni al carbonio 14 (metodo di datazione radiometrica) con le sue "spaghettose appendici". Sostenne anche che la sua teoria era altrettanto valida di quella del disegno intelligente (corrente di pensiero secondo la quale alcune caratteristiche dell'universo e delle cose viventi sono spiegabili meglio attraverso una causa intelligente, [che] non attraverso un processo non pilotato come la selezione naturale) e chiese che le venissero dedicate un numero pari di ore di lezione in classe. Henderson battezzò la propria teoria "Pastafariana", un acronimo di pasta e Rastafarianesimo (fede religiosa, nata nel 1930). Spiegò che poiché il movimento a sostegno del disegno intelligente utilizza riferimenti ambigui a un non meglio precisato "progettista intelligente", ogni entità concepibile poteva rivestire questo ruolo, compreso il Prodigioso Spaghetto Volante.
In breve tempo ebbe risposta da due dei membri del consiglio e una terza risposta giunse in seguito.
Nei due mesi successivi, il traffico del sito web di Henderson, che pubblicava le suddette lettere, crebbe rapidamente. La popolarità del sito esplose in agosto quando il Prodigioso Spaghetto Volante venne descritto in alcuni blog e siti di notizie su Internet. Presto la notizia venne riportata anche dalle principali fonti di informazione.
Dogmi.
Molti dei "dogmi" proposti da Henderson sono stati volutamente scelti per parodiare le critiche fatte dai proponenti del Creazionismo.
Quindi non ci sono regole strette e regolamenti, nè particolari rituali, preghiere ed altre sciocchezze. Ogni membro ha il diritto di dire come deve essere la Chiesa e come diventerà. 
* L'Universo è stato creato da un invisibile e non rilevabile Prodigioso Spaghetto Volante, quando questi era in preda a una marcata intossicazione alcolica (si suppone che sia questo il motivo di un Creato imperfetto).
* Tutte le prove a sostegno della tesi evoluzionistica sono state intenzionalmente impiantate da questo essere per mettere alla prova la fede dei Pastafariani.
* Quando sono effettuati test scientifici di datazione radiometrica il Prodigioso Spaghetto Volante interviene modificando sistematicamente i risultati mediante la sua Spaghettosa Appendice.
* Il riscaldamento globale, i terremoti, gli uragani e gli altri disastri naturali sono conseguenza diretta della diminuzione del numero dei pirati fin dal XIX secolo. È stato fornito un grafico che prova la proporzionalità inversa tra il numero dei pirati e la temperatura globale, i cui dati sono stati ovviamente inventati di sana pianta (indica solo 17 pirati nel mondo moderno, una stima bassissima). Henderson sviluppò probabilmente questo dogma in risposta alle tesi, sostenute da alcuni gruppi religiosi, secondo le quali il gran numero di disastri, guerre e carestie presenti nel mondo siano dovute a una carenza di rispetto e venerazione nei confronti delle divinità. Nel 2008, Henderson interpretò l'incremento delle attività piratesche nel Corno d'Africa come un'addizionale prova empirica di tale dogma, visto che la Somalia possiede il più grande numero di pirati ed è al contempo la nazione che emette la minore quantità di anidride carbonica.

Codici di condotta.
* Le preghiere terminano con la parola "Ramen" invece che "Amen" (il Ramen è una varietà di spaghetti giapponese).
* I seguaci sono tenuti a indossare un vestito da pirata.
* Il Pastafarianesimo possiede i propri comandamenti (condimenti), dettati dal Prodigioso Spaghetto Volante al Capitano Pirata Mosey durante il vagare di quest'ultimo sul Monte Sugo. Noti come gli otto “Io preferirei davvero che tu evitassi”, vennero poi denominati "comandamenti" dal Capitano e "condimenti" dai pirati della sua ciurma. In realtà, sembrerebbe che i comandamenti fossero in origine dieci ma, nel fare ritorno dal monte, il Capitano Mosey perse due tavole. Quest'evento parrebbe essere alla base della debole moralità dei Pastafariani. Apparirebbe chiaro anche il riferimento al film "La pazza pazza storia del mondo" di Mel Brooks, in cui Mosè, che aveva ricevuto in origine da Dio tre tavole di pietra contenenti ciascuna cinque comandamenti, per errore ne fa cadere una a terra, sbriciolandola, e tramandando così ai posteri solo dieci comandamenti.

Gli otto "Io preferirei davvero che tu evitassi".
1. Io preferirei davvero che tu evitassi di comportarti come un asino bigotto "più-santo-di te" quando descrivi la mia spaghettosa bontà. Se qualcuno non crede in Me, pace, nessun problema! Dico davvero, non sono mica così vanitoso. E poi non stiamo parlando di loro, quindi non cambiare argomento!
2. Io preferirei davvero che tu evitassi di usare la Mia esistenza come motivo per opprimere, sottomettere, punire, sventrare, e/o, lo sai, essere meschino con gli altri. Io non richiedo sacrifici, e la purezza è adatta all'acqua potabile, non alle persone.
3. Io preferirei davvero che tu evitassi di giudicare le persone per come appaiono, o per come si vestono, o per come camminano, o, comunque, di giocare sporco, va bene? Ah, e ficcati questo nella tua testa dura: donna = persona. Uomo = persona. Tizio noioso = Tizio noioso. Nessuno è meglio di un altro, a meno che non stiamo parlando di moda e, mi spiace, ma ho dato questo dono alle donne e a qualche uomo che capisce la differenza fra magenta e fucsia.
4. Io preferirei davvero che tu evitassi di assumere comportamenti che offendano te stesso, o il tuo partner consenziente, maggiorenne e mentalmente maturo. Per chiunque avesse qualcosa da obiettare, penso che l'espressione corretta sia "Andate a farvi f******", a meno che tale espressione non sia ritenuta troppo offensiva. Nel qual caso possono spegnere la TV e andare a farsi una passeggiata, tanto per cambiare.
5. Io preferirei davvero che tu evitassi di sfidare, a stomaco vuoto, le idee odiose, bigotte e misogine degli altri. Mangia, e solo dopo prenditela con gli s******.
6. Io preferirei davvero che tu evitassi di erigere chiese/templi/moschee/santuari multimilionari in onore della mia spaghettosa bontà, perché tali soldi potrebbero essere meglio spesi per (fai la tua scelta):
A. Sconfiggere la povertà
B. Curare le malattie
C. Vivere in pace, amare con passione, e ridurre il prezzo delle pay-Tv. Posso anche essere un essere onnisciente dai carboidrati complessi, ma apprezzo le cose semplici della vita. Dovrei saperlo, no? Io SONO il Creatore!
7. Io preferirei davvero che tu evitassi di andare in giro raccontando alla gente che ti ho parlato. Non sei mica così importante. Finiscila! E poi ti ho detto di amare il tuo prossimo, mi capisci o no?
8. Io preferirei davvero che tu evitassi di fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te se sei uno che apprezza, ehm, cose che fanno largo uso di pelle/lubrificanti/Las Vegas. Se anche l'altra persona le apprezza (purché si rispetti il quarto punto), allora dateci dentro, fatevi foto, e, per l'amor di Mike, indossate un preservativo! In tutta onestà, è un pezzo di gomma. Se non avessi voluto che fosse piacevole farlo, avrei aggiunto delle spine, o qualcos'altro.
Vantaggi della conversione.
Henderson inizialmente ha fornito le seguenti motivazioni per convertirsi al pastafarianesimo:
* Come gli spaghetti che essi adorano, i pastafariani hanno standard morali sottili.
* Non ci prendiamo mai troppo sul serio.
* Accettiamo le contraddizioni della vita (sebbene in ciò, siamo veramente unici).
* Ogni venerdì (detto anche "birredì") è una festività religiosa.
* La promessa di una fabbrica di spogliarelliste o spogliarellisti, a seconda del proprio orientamento, e di un vulcano di birra in Paradiso.

Tuttavia anche nel pastafarianesimo è presente un inferno dove, a differenza del paradiso, il vulcano erutta birra stantia e le/gli spogliarelliste/i hanno malattie veneree.

Casi mediatici.
Nel luglio 2011, in Austria, l'ufficio dei trasporti di Vienna ha riconosciuto il diritto di un giovane pastafariano, Niko Alm, a inserire nella patente di guida una propria fotografia scattata mentre, a mo' di copricapo, indossava uno scolapasta, simbolo del Prodigioso Spaghetto Volante. Analogo episodio si è ripetuto nel luglio 2013 a Brno, in Repubblica Ceca, quando il ventottenne Lukáš Nový ha ottenuto che gli venisse riconosciuto il diritto di utilizzare, per la propria carta d'identità, una foto che lo ritrae mentre indossa lo scolapasta, in accordo alle leggi nazionali che consentono l'utilizzo di copricapi per motivi medici o religiosi purché non nascondano il volto.
Il 3 gennaio 2014 Christopher Schaeffer ha giurato, con uno scolapasta sulla testa, come membro del consiglio comunale di Pomfret, una cittadina con 15 mila abitanti nello stato di New York, diventando il primo politico pastafariano statunitense eletto a un incarico pubblico, seguendo di pochi mesi l'elezione al Parlamento austriaco di Niko Alm (ottobre 2013).
Il 17 agosto 2013 a Mosca la polizia ha interrotto una processione pastafariana, traendo otto persone in arresto per "manifestazione non autorizzata", su denuncia di alcuni cittadini ortodossi che si dicevano offesi nel loro sentimento religioso.
Chiesa italiana.
In Italia è presente una Chiesa Pastafariana Italiana, nata ufficialmente il 12 marzo 2012 a Roma e che ha nominato come Supremo Giorgio de Angelis che assunse il nome di Pappa Al Zarkawi I; in seguito alla sua morte avvenuta a fine dicembre 2013, Capitan Pizzocchero è stato nominato temporaneamente vicario della Chiesa e in seguito Pappa per acclamazione.
La Chiesa Pastafariana Italiana ha posto varie sedi per l'Italia (denominate Pannocchie) gestite dai Frescovi locali, organizzando periodicamente eventi vari.
Il 20 luglio 2014, presso il rifugio Dolada nel comune di Pieve dall'Alpago (BL), è stato celebrato il primo matrimonio in Italia con rito pastafariano. Questo rifugio fa parte del "Cammino Pastafariano", un percorso che unisce tre rifugi creati, secondo i credenti, dal Prodigioso Spaghetto Volante.
La Chiesa Pastafariana Italiana ha organizzato quattro raduni nazionali, il primo a Roma, poi a Venezia, Bologna e Firenze. Nel corso del terzo raduno, l'8 novembre 2014, si è data statuto di associazione e sta raccogliendo adesioni per chiedere il riconoscimento ufficiale dallo Stato.
Nel gennaio 2015 la Pannocchia di Torino ha dato vita alle "Tagliatelle in piedi", la risposta ironica alle "Sentinelle in piedi"; in seguito questa manifestazione è stata replicata in tutta Italia dai gruppi locali.
Il 15 agosto 2015, in occasione del Giubileo della Rivelazione al mondo, la Chiesa Pastafariana ha organizzato "La Grande Erezione": ha piantato sulla cima del Monte Dolada (Prealpi Bellunesi), montagna ritenuta sacra, una riproduzione artistica del liscafisso, il simbolo della loro religione.

Niente di personale ma …non c’è assolutamente da ridere: se il loro culto sembra humor o satira, ciò avviene per pura coincidenza.
In Nuova Zelanda è riconosciuta come organizzazione religiosa e, da poco tempo, può anche celebrare matrimoni. Ma come sarà un matrimonio pastafariano: gli sposi si scambieranno anelli di spaghetti? La sposa fisserà il suo velo allo scolapasta?
Anche in Italia è approdato il culto pastafariano. D'altronde come poteva non nascere nel paese degli spaghetti la religione del Mostro di Spaghetti Volante? Hanno fatto uno sforzo ed hanno fatto una religione: quando saranno migliaia, sarà inevitabile che chiedano il riconoscimento allo Stato Italiano come "culto acattolico" e la stipula di un intesa prevista dal Concordato. E nemmeno questo è uno scherzo, però ci sarà da ridere quando lo faranno!
Oggi mi sono mangiato un bel piatto di spaghetti con olio extravergine, pepe, grana in abbondanza e un bel bicchiere …di vino rosso!
Che abbia bestemmiato???  

sabato 12 marzo 2016

13. LA STORIA DI ANGELO GOTTI
medaglia d'oro della Resistenza
UN RAGAZZO NORMALE
PARTIGIANI

Il giovane operaio di Villa d’Almè Angelo Gotti, dipendente del locale Linificio, fu uno dei primi ad aderire alla formazione partigiana costituitasi nella primavera del 1944 attorno a don Antonio Milesi “Dami”, curato dell’oratorio e ad alcuni dirigenti del Linificio.
La brigata di “Dami” appartenente alle Fiamme Verdi, si chiamò “Valbrembo”; fissò il comando tattico alla Cascina Como, presso il Passo del Cat, sul monte Ubione e iniziò a operare nell’area compresa tra la bassa Valle Brembana e la Valle Imagna spingendosi fino a San Pellegrino e in Val Taleggio.
Fin dall’inizio Angelo ebbe parte attiva nelle principali azioni compiute dalla “Valbrembo”, partecipando anche ai tragici fatti del 26 settembre 1944, seguiti all’assalto di Villa Masnada (Crocette di Mozzo), culminato con la battaglia di Sombreno che costò la vita a ben dieci partigiani della brigata.  
Nel successivo mese di novembre la “Valbrembo” fu oggetto di un sanguinoso rastrellamento condotto dalla Compagnia Ordine Pubblico (O.P.) di Aldo Resmini. All’origine dell’operazione ci fu la cattura da parte dei fascisti, a Ponte Giurino, di un partigiano della “Valbrembo”, il quale sotto tortura rivelò l’ubicazione dei compagni che furono attaccati in due diverse località: a Sussia sopra San Pellegrino Terme e a Cascina Como. Il primo attacco si concluse con l’uccisione di due partigiani e la cattura di numerosi altri.
Subito “Dami” inviò a Cascina Como Angelo Gotti ed Emanuele Quarti, perché avvertissero la squadra di partigiani della “Valbrembo” rifugiata lassù dell’imminente rastrellamento. Giunti in prossimità del Passo del Cat, sul crinale che separa la Valle Imagna dalla Val Brembilla, i due incapparono in una pattuglia fascista della O.P. che aprì il fuoco contro di loro. Anziché fermarsi, essi cercarono scampo nella boscaglia: il Quarti riuscì a mettersi al riparo, mentre il Gotti, ferito ad una spalla, fu catturato. Riconosciuto dal partigiano traditore, che era stato costretto dal Resmini a guidare i fascisti verso le postazioni partigiane sul monte Ubione, venne a lungo violentemente picchiato, affinché confessasse i nomi e l’ubicazione dei compagni, quindi venne fucilato sul posto.
La targa sull'albero della fucilazione e il segno di uno dei proiettili.
Cosi Emanuele Quarti rievoca l’episodio: ”Giunti a circa quaranta metri dal primo casello delle formazioni, non trovammo i partigiani, bensì i fascisti che intimarono ‘mani in alto!’. Mentre istintivamente alzammo le mani, ci guardammo e dicemmo ‘scappiamo’. Ci buttammo a corpo morto correndo all’impazzata verso la valle. Io inciampai in una radice, Angelo più avanti di me venne raggiunto da una raffica di mitra ad una spalla. Rotolai in un cespuglio e rimasi immobile per ore. Sentii i fascisti passare più volte vicino, mentre sparavano all’impazzata nei cespugli, aspettandomi da un momento all’altro di essere colpito. Stavo il più fermo possibile, con la medaglia della catenina del collo stretta fra le mani. Angelo venne catturato e sentii chiamare 
la barella. Poiché era in regola con i documenti di lavoro, disse ai fascisti di essere in zona per effettuare scambi di sale con formaggi.
Sulle prime gli credettero e sembrò che lo portassero in ospedale. Sentii una voce, quella del traditore, che diceva ai fascisti che quello era la staffetta del comandante “Dami”.
A questo punto sentii il gruppo allontanarsi. I fascisti, inviperiti per non aver trovato nessuno sul Monte Ubione, si accanirono sul Gotti pestandolo col calcio del fucile e pugni per strappargli i nomi del comandante e dei compagni. Nonostante le sevizie, Angelo Gotti resistette eroicamente, non rivelando alcun nome. Venne legato ad un albero e fucilato nelle prime ore del pomeriggio”.
La signora Maria Cefis, che era la fidanzata di Angelo Gotti, riferisce i suoi ricordi del tragico episodio: “Quando è arrivato nel bosco sopra Capizzone con uno zaino sulle spalle lo hanno visto i repubblichini e gli hanno sparato: lo hanno colpito ad una spalla. Lo hanno raggiunto e ha detto loro che era in giro per legna. Lo hanno poi medicato nella cascina nel prato appena sotto il Passo del Canto; mi ha detto questo il giorno dopo la signora che abitava nella cascina.
La targa con la poesia posta nelle vicinanze del cippo.
Lo hanno lasciato libero; era appena uscito dalla cascina quando arrivò uno di Capizzone, un ex partigiano delle Fiamme Verdi, il quale disse ai repubblichini che l’Angelo era il portaordini del “Dami” e che bisognava farlo fuori. Hanno spinto Angelo sul colle, lo hanno legato ad una albero, gli hanno cavato gli occhi, gli hanno strappato le unghie pere farlo parlare; la donna della cascina lo sentiva  urlare, ma l’Angelo non parlò per non tradire i suoi compagni. Alla fine lo hanno colpito con sette pallottole nella schiena, hanno tagliato la corda con la quale lo avevano legato e l’Angelo cadde in avanti: lo abbiamo trovato così il giorno dopo in una pozza di sangue. Il mattino successivo Cesco, il fratello , più giovane di Angelo, mi dice: ‘vieni, andiamo a vedere l’Angelo perché è stato ferito’. Siamo arrivati in bicicletta fino a Capizzone, poi a piedi fino su alla cascina; la signora ci ha raccontato tutto, sentiva le sue urla dalla cascina. Siamo arrivati al colle appena sopra, lo abbiamo visto in quello stato, io mi sono sentita male. Dopo un po’ di tempo arrivarono due uomini con una scala mandati dal sindaco di Capizzone: avevamo paura, perché se arrivavano i fascisti ci potevano prendere e torturare anche noi. Disteso sulla scala lo abbiamo portato fino allo stradone, lo abbiamo messo poi su un caro avvolto in una coperta: aveva 22 anni. Nello scendere verso Villa d’Almè suo fratello Cesco ed io eravamo davanti in bicicletta; sapevo che alle Vie di Almenno S. Salvatore c’era un posto di blocco con una guardiola dei repubblichini. Io mi ero fermata qualche volata a parlare con questi giovani, erano ragazzi, e quando siamo arrivati dissi loro: ‘arriverà un carretto, non fermatelo. Ancora non sapevano di quanto era successo, e così siamo arrivati a Villa d’Almè e lo abbiamo messo nella camera mortuaria”.
Il cippo commemorativo posto al Passo del Canto,
qualche centinaio di metri sopra la Cascina Como.
Le circostanze della morte di Gotti sono riportate nella motivazione della medaglia d’oro al valore militare che venne attribuita alla sua memoria:  

”Valoroso combattente nella lotta di liberazione, distintosi fin dal l’inizio del movimento per iniziativa, per capacità di comando e per intrepido coraggio dimostrato in numerosi combattimenti, dopo 14 mesi di indefessa  attività, seriamente ferito, cadeva nelle mani del nemico. Orrendamente torturato, resisteva con sovrumana forza d’animo e intrepida fermezza, nulla rivelando. ddddddd Sanguinante e mutilato da un occhio, veniva posto davanti ai fucili del plotone di esecuzione, ma prima di cadere, con esemplare coraggio rivendicava la sua appartenenza alla formazioni partigiane e la sua fedeltà alla Patria”.
Cascina Como, in Valle Imagna (Bergamo)
23 novembre 1944.


Tratto da “I senza nome - Storie della Resistenza Bergamasca”:
Faceva freddo, quella mattina di fine novembre, ma Angelo ed Emanuele, due giovani Fiamme Verdi della brigata “Valbrembo”, avevano altro di che preoccuparsi.
Erano partiti da Villa d’Almè che faceva appena chiaro e stavano camminando di buona lena da quasi due ore. La meta era il passo del Canto, sul monte Ubione, a cavallo tra la Valle Imagna e la Val Brembilla.
Recavano un messaggio urgente di “Dami”, il giovane prete che sotto le vesti mansuete di curato dell’oratorio di Villa celava il ben più gravoso ruolo di comandante della brigata. Era stato lo stesso “Dami” a svegliarli prima dell’alba, bussando alle porte delle loro case.
“Ragazzi - aveva detto in preda a un’evidente angoscia - mi hanno appena riferito che il nostro distaccamento di Sussia è stato attaccato ieri dai fascisti, tutti i componenti della squadra sono stati catturati e portati a San Pellegrino e poi a Bergamo”.
Aveva elencato i nomi di alcuni partigiani che facevano par- te di quella squadra: “Temo che ci siano dei feriti e forse dei morti, ma anche per gli altri ci sono poche speranze, nel migliore dei casi li spediranno in Germania”. Poi aveva impartito loro alcune brevi istruzioni: “Correte su alla cascina Como e avvertite quelli del comando tattico di mettersi in salvo, perché ho ragione di credere che i fascisti attac cheranno di nuovo, forse oggi stesso”. Così dicendo aveva tirato fuori dallo zaino un pacchetto di sale: “Tenete – aveva detto consegnandolo ad Angelo – se vi dovessero fermare, di- te che state andando in montagna, come al solito, per scambiare il sale con del formaggio”.
Alla notizia del nuovo attacco, l’Emanuele era stato preso dallo sconforto: “Non abbiamo scampo - aveva esclamato - ormai hanno deciso di annientarci!”. E aveva ripensato alla tremenda esperienza di appena poche settimane prima, quando lui e la sua famiglia avevano rischiato di essere ammazzati. La sua casa era stata attaccata da un gruppo di sbandati slavi e solo l’intervento di una pattuglia della Valbrembo, casualmente sul posto in attività di perlustrazione, aveva evitato il peggio, tuttavia lui stesso, i genitori e la sorella erano rimasti feriti, anche se in modo leggero. Il giorno seguente, messi in allarme da quell’episodio, erano intervenuti i fascisti della O.P. che, non avendolo trovato, gli avevano incendiato la casa con tutte le masserizie, maltrattando e interrogando a lungo i suoi familiari. Ma questi erano stati solo episodi marginali.


Ben più funesto era stato l’epilogo di un’azione messa in atto dalla brigata alla fine di settembre. Il tentativo di disarmo di un distaccamento tedesco acquartierato nella Villa Masnada, alle Crocette di Curno, si era concluso tra gicamente: nel corso dello sganciamento verso Villa d’Almè, la squadra partigiana era stata inseguita da reparti di nazisti e fascisti e costretta a cercare scampo sui colli di Sombreno. Attaccati da più parti e accerchiati, i partigiani si erano difesi disperatamente, ma avevano avuto la peggio, lasciando sul campo una decina di morti, tra caduti in combattimento e fucilati. Una batosta tremenda, da cui la Valbrembo non si era ancora ripresa, al punto che il comando tattico si era dovuto rifugiare sul monte Ubione per sfuggire all’incalzare dei rastrellamenti e le varie squadre si erano dovute disperdere in zone ritenute più sicure. Ma era servito a poco, infatti il reparto di Sussia era stato sopraffatto e adesso con ogni probabilità sarebbe toccato a quelli di cascina Como. Bisognava far presto, forse l’attacco fascista era già cominciato. I due giovani partigiani, incuranti della fatica, superarono quasi correndo l’ultimo tratto di sentiero che li separava dal passo. Il sole, che si era alzato da poco dietro la scura propaggine meridionale delle Orobie, li colpì in viso quando sbucarono dal bosco, trovandosi allo scoperto in una piccola radura posta proprio sulla sommità del crinale. A margini del pascolo sorgeva uno sgangherato capanno di caccia, usato in quel periodo dai partigiani di Cascina Como che vi tenevano costantemente piazzate un paio di sentinelle. Fatti pochi passi nel prato, le due staffette dovettero arrestarsi di colpo. Dal capanno erano usciti quattro militi in camicia nera che correvano verso di loro, spianando il mitra e urlando a squarciagola: “Mani in alto!”. Istintivamente i due alzarono le mani, poi si guardarono negli occhi, spaventati. Fu un attimo, poi si dissero: “Scappiamo!”. E cominciarono a correre all’impazzata nel bosco, mentre sopra di loro fischiavano le pallottole degli inseguitori. Ma la corsa fu breve. L’Angelo, che era davanti, venne raggiunto da una raffica alla spalla, emise un sordo lamento e stramazzò a braccia aperte, rotolando poi per un tratto giù per il pendio. Il compagno proseguì la corsa per un breve tratto, poi inciampò in una radice, perse l’equilibrio e capitombolò per qualche metro, finendo dentro un cespuglio. Subito dopo un paio di fascisti raggiunsero l’Angelo e lo costrinsero a risalire fin sulla strada, incuranti dei suoi lamenti per il dolore che gli provocava la ferita. Altre camicie nere continuarono la ricerca di Emanuele il quale, sprofondato com’era nel cespuglio, venne casualmente a trovarsi fuori dalla vista di chi stava più in alto. Rannicchiato nel suo provvidenziale nascondiglio, il giovane partigiano sentiva i fascisti correre per il bosco, sparando all’impazzata. Aspettandosi di essere colpito da un momento all’altro, prese tra le mani la medaglietta della Madonna che portava al collo e cominciò a pregare, raccomandandosi l’anima. Rimase così, immobile e atterrito, per parecchio tempo, mentre attorno a lui infuriava l’inferno. Poi le ricerche cessarono. I militi, convinti che la loro preda avesse preso il largo, smisero di sparare e se ne tornarono sulla strada, unendosi ai compagni.




Il bosco era ridiventato silenzioso e così l’Emanuele, continuando a stare immobile e rannicchiato nel suo nascon diglio, poteva sentire distintamente le voci dei fascisti. Stavano interrogando l’Angelo. Percepì la voce di uno che gli chiedeva le generalità, poi quella di un altro che leggeva i dati anagrafici dai documenti. “Preparate una barella - ordinò quello che doveva essere il comandante - questo qui non c’entra con i banditi, i suoi documenti sono in regola, portiamolo all’ospedale”. “Sono scappati solo per paura - aggiunse un altro - pare che stessero andando dalle parti di Laxolo a scambiare del sale con un paio di stracchini”. Emanuele tirò un sospiro di sollievo. “L’hanno bevuta - mormorò con un filo di voce - meno male!”. Poi, pensando all’amico: “Speriamo che l’Angelo non stia troppo male e che se ne vadano presto, perché qui non ci resisto”. In effetti, per essere stato troppo a lungo immobile e con gli arti rattrappiti, si sentiva tutto il corpo indolenzito; le braccia parevano aver perso la sensibilità e le gambe gli formicolavano, inoltre il collo del piede, che aveva urtato una radice, gli doleva parecchio, dando l’impressione di essersi incrinato. Ma le sue speranze si tramutarono subito dopo nel più nero scoramento. Proprio mentre sembrava che quelli lassù stessero per andarsene, sentì uno che gridava: “Signor tenente, io questo lo conosco, è Angelo Gotti, un bandito, la staffetta di Dami”. Emanuele raggelò. Aveva riconosciuto la voce del traditore, uno della loro brigata, caduto nelle mani dei fascisti un paio di settimane prima, durante uno scontro a Ponte Giurino. Evidentemente doveva essere passato dalla parte del nemico e adesso, arrivato sul posto solo in quel momento, non aveva esitato a denunciare l’ex compagno. Seguì un attimo di silenzio, poi la voce del tenente echeggiò chiara e rabbiosa, mentre investiva il povero Angelo con una serie di insulti. “Bastardo, ci avevi quasi fregato, ma adesso ti concio io per le feste!”. Queste parole arrivarono nitide alle orecchie di Emanuele, accompagnate da una serie di tonfi sordi che strappavano all’amico urla selvagge di dolore. Ancora una breve pausa e poi altri colpi, forse sferrati con il calcio del moschetto, e altri lamenti. “Dimmi dove sono finiti i tuoi amici!”. “Dovevi unirti a loro? Come mai non li abbiamo trovati nel rifugio? Chi ti ha mandato?”. Le domande, incalzanti e intercalate dalle botte, rimanevano senza risposta. “Non t’illuderai di aiutarli, per caso!”. “Ormai li conosciamo tutti i tuoi amici, è questione di giorni e li facciamo fuori tutti”. “Ti conviene collaborare se vuoi salva la vita!”. Da questa parole Emanuele arguì che i fascisti non dovevano aver trovato nessuno nel rifugio di Cascina Como. Probabilmente erano arrivati troppo tardi. Meno male! Però ebbe una fitta al cuore nel rendersi conto che a guidare i rastrellatori sul posto era stato quel traditore. “Deve averli guidati anche a Sussia - pensò con rabbia - e lì hanno avuto successo”. Intanto le domande pressanti che il tenente rivolgeva ad Angelo continuavano ad essere disattese. Il prigioniero rispondeva con mugugni smozzicati, alternati a lamenti e a ripetuti dinieghi. Alla fine, stremato dalle percosse, Angelo ammise quello che i suoi aguzzini sapevano già: “Non so niente, io sono solo una staffetta e non conosco i veri nomi dei miei compagni e non sono al corrente dei piani della formazione”. Era ovviamente una bugia sacrosanta, in quanto lui conosceva assai bene quasi tutti i partigiani della Valbrembo, comandanti compresi. Era un dipendente del Linificio di Villa d’Almè, dove lavoravano altri compagni di lotta. Il capo del suo gruppo era addirittura il figlio del direttore dello stabilimento, Andrea Baudoux, senza contare i tanti amici che avevano scelto assieme a lui la strada della lotta armata da ormai oltre un anno. “Bastardo!” fu il commento del tenente. E giù un’altra dose di pugni e calci. “Tu li sai i nomi dei tuoi capi. Te li chiedo per l’ultima volta, se non rispondi ti ammazzo qui, adesso, con le mie mani!”. Emanuele, che seguiva l’interrogatorio senza perdere una parola, dedusse dall’insistenza del tenente che il traditore non doveva essere stato in grado di indicare la vera identità dei partigiani della formazione. In effetti si ricordò che quel disgraziato si era aggregato alla Valbrembo da poche settimane e in una maniera che non aveva del tutto convinto “Dami” e soci, che per questo lo avevano sempre lasciato alquanto ai margini della vita di brigata. Non era dunque da escludere che si trattasse di una spia, abilmente infiltrata nella formazione. Un bel guaio davvero! Era più che mai urgente farlo sapere a “Dami”. “Non li conosco i loro nomi veri - gridava intanto Angelo sull’orlo della disperazione - io so solo i nomi di battaglia, gli stessi che sapete anche voi: “Dami”, Gianni, Sandro…” e alternava le parole a penosi lamenti. “Va bene, l’hai voluto tu!” concluse il fascista, la cui voce giunse a Emanuele alterata da una rabbia incontenibile. Seguì un attimo di silenzio. Poi una raffica di mitra e di nuovo silenzio. Lacrime di costernazione rigarono il volto di Emanuele. A malapena riuscì a recitare tra i singhiozzi una preghiera per il suo amico che ormai, ne era certo, era stato fucilato. Ma non aveva parlato. Tese l’orecchio per cercare di captare altre informazioni, ma sentì solo il brusio dei brigatisti neri che con ogni probabilità stavano preparandosi a partire. Così fu infatti: poco dopo il brusio si attenuò, si allontanò e poi si spense del tutto. Emanuele lasciò passare ancora qualche minuto, poi si decise a uscire dal nascondiglio. Con cautela e non senza difficoltà risalì la china, scivolando più volte sul terreno coperto di foglie morte. Finalmente raggiunse la radura e poi la strada. Il sole, ormai alto nel cielo, splendeva indifferente sullo spettacolo che si presentò agli occhi del giovane partigiano. Angelo era là, ai margini della strada, legato a un tronco d’albero. Il volto orrendamente tumefatto, mutilato di un occhio, la testa piegata su un fianco, il corpo segnato dalle percosse e trapassato dalla raffica che aveva posto fine alla sua giovane vita. Angelo Gotti era un ragazzo normale, un semplice operaio. Aveva fatto la sua scelta”.