martedì 30 giugno 2015

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CATERINA DISUBBIDIENTE
Valle Taleggio

C’era una volta una ragazzetta che non ubbidiva mai alla mamma, non la aiutava mai nelle faccende di casa, ma passava il tempo a pettinarsi e specchiarsi.
La mamma le diceva sempre: “Caterina, attenta che ti apparirà il diavolo!”. Ma la Caterina non le dava retta. Una notte il diavolo venne davvero: arrivò alla casa di questa famiglia, appoggiò una scala sotto la finestra della ragazza cattiva e cominciò a chiamarla:
“Caterina, Caterina, sono qui in fondo alla scala, con una cesta e un grosso pettine, vengo a pettinarti!”.
Caterina sente che la chiamano e si mette a gridare:
“Mamma, mamma, ascolta, ascolta!”.
Ma la mamma le risponde:
“Dormi, dormi, che non hai mai dormito!”.
Il Diavolo le dice:
“Guarda che sono al primo gradino!”.
“Mamma, mamma, ascolta, ascolta!”.
“Dormi, dormi, che non hai mai dormito!”.
“Guarda che sono al secondo gradino!”.
“Mamma, mamma, ascolta, ascolta!”.
“Dormi, dormi, che non hai mai dormito!”.
“Guarda che sono al terzo gradino!”.
“Mamma, mamma, ascolta, ascolta!”.
“Dormi, dormi, che non hai mai dormito!”.
Finchè arrivò in cima alla scala:
“Caterina, guarda che sono all’ultimo gradino!”.
“Mamma, mamma, ascolta, ascolta!”.
“Dormi, dormi, che non hai mai dormito!”.
“Guarda che sto aprendo la finestra!”.
“Mamma, mamma, ascolta, ascolta!”.
“Dormi, dormi, che non hai mai dormito!”.
“Guarda che sono in camera!”.
“Mamma, mamma, ascolta, ascolta!”.
“Dormi, dormi, che non hai mai dormito!”.
 “Guarda che sono ai piedi del letto!”.
“Mamma, mamma, ascolta, ascolta!”.
“Dormi, dormi, che non hai mai dormito!”.
“Guarda che ti prendo!”.
“Mamma,…”.
Il diavolo la prese e iniziò a pettinarla, con il suo pettine di ferro. Le strappava i capelli dalla testa e la riempiva di sangue.
Caterina piangeva e gridava: “Basta, basta, per carità!”.
Ma il diavolo rideva e rispondeva: “Pelo, pelo e getto nella cesta”.
E continuò a pettinarla finché non ebbe riempito la cesta, poi se ne andò. Caterina rimase senza capelli e con la testa ricoperta di sangue.
La mamma, quando la vide, le disse: “Adesso, forse, smetterai di pettinarti e mi aiuterai nelle faccende di casa!”. Caterina iniziò a comportarsi bene, ma ormai era brutta e nessuno la guardava.

"Se il Diavolo continua ancora a farvi lotta vuol dire che non siamo ancora preda sua, vuol dire che nonostante la fatica e la debolezza non ci siamo arresi".
Sandro Panizzolo



lunedì 29 giugno 2015

ADESIONE AL 5° FESTIVAL DELLE ALPI
28 giugno 2015
Il sentiero storico del Cardenello, Montespluga (lago e passo).

"Siam 76...siam giovani e forti...", lasciamo il paese di Isola e cominciamo a salire. 

La giornata è bellissima: un caldo sole ci scalda, una leggera brezza ci asciuga il sudore, i prati sono in piena fioritura...e si sale!

Iniziamo la gola del Cardenello, il tratto più spettacolare del percorso. Il "perno della valle" prende il nome dal vicino Monte Cardine.


Il sentiero, di origine romana, è molto bello, spesso esposto su alte pareti rocciose, ma è ampio e sicuro. 

Arriviamo sotto lo sbarramento della diga, costruita nel 1931. Ha una capienza di 32 milioni di metri cubi d'acqua.

Lo scenario è di grande bellezza: sul lato opposto del grande lago artificiale (m. 1901), il Pizzo Suretta,
 che, con i suoi 3.027 metri, domina questo gruppo montuoso.
  
 Proseguiamo lungo la sponda occidentale del lago.

Tra magnifiche fioriture di rododendri arriviamo a Montespluga (m. 1908), un piccolo ma bellissimo paese turistico estivo e invernale.

Passate le ultime case, prendiamo il sentiero che prima ci porta alla casa cantoniera detta "la sommitale" e poi, in breve, al Passo dello Spuga (m. 21139).

Sulla targa marmorea: "Compiendosi il secolo da quando la titanica strada quest'alpe fra due genti domo i figli d'Italia e d'Elvezia 
qui eressero il segno al passato al futuro delle valli natie".
  
Senza un documento valido di espatrio hanno portato al di là del confine ogni genere di...alimentazione: vino, grappa, caffè,...

Ciao Svizzera: dobbiamo rientrare...peccato! Percorriamo alcuni tratti ancora ben conservati dell'antica strada del valico.

Per concludere...tanti saluti con simpati...iiaaa...iiiaaaa.

sabato 27 giugno 2015

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IL TESORO DELLA REGINA
VAL BREMBILLA


A nord-est della remota ma bella borgata di Brembilla, tra S.Antonio Abbandonato e la forcella di Bura, accanto al cosidetto Corno dei Camosci, s’innalza una cima che, forse per la sua forma e per l'eminente altezza da cui si dominano i due versanti opposti di Brembilla e di Sussia, frazione alta di S. Pellegrino, è chiamata Castello Regina.
Si narra dunque che lassù sorgesse un castello comandato nientemeno che da una regina (Teodolinda?), protetta dalla cavalleria ch’era accampata nei prati sottostanti dove ora sorge la contrada di Cavallia, che avrebbe preso il nome da quella cavalleria, ma dove forse neppure i muli potrebbero arrivare.


Era una donna forte e guerriera, andava sempre in testa ai suoi soldati nelle battaglie e ritornava ogni volta vittoriosa al suo castello.
Quando ritornava dalle sue guerre, appena giunta a Gualguari (questo luogo è attualmente il centro del paese di Brembilla) si fermava nella piazza e provvedeva ad impiccare i suoi nemici, i traditori e i prigionieri. Quando li aveva tutti impiccati, ripartiva per risalire al suo castello e dopo nessuno poteva più vederla per molto tempo.
Un bel giorno una staffetta porta alla regina questa notizia: in una località detta Lasiol, si era accampato un re con molti suoi soldati; questo re aveva una corona tutta d'oro, sacchi pieni di marenghi e un vitello tutto d'oro. La regina, udita la notizia, radunò tutti i suoi soldati e, raccontata la cosa, promise che avrebbe lasciato a loro tutto l'oro che avrebbero conquistato; per sè avrebbe tenuto soltanto il vitello d'oro e la corona. La stessa sera l'esercito della regina partì per la guerra e durante la notte si preparò per la battaglia.   
Era una notte d'agosto e c'era la luna piena. A mezzanotte i soldati della regina cominciarono l'attacco, che durò fino a tanto che il re si mise in fuga verso le rocce dell'orrido al di là di Brembilla; dall'orrido uno alla volta precipitarono nel burrone, ma il re, prima di morire, mandò una maledizione alla regina che aveva preso il suo vitello d'oro: infatti questo vitello era simbolo della sua religione. La regina tornò al castello vittoriosa, portando con se' il bottino di guerra: la corona del re e il suo vitello d'oro. Sennonché, quando era già ritirata nella sua stanza, si scatenò un furioso temporale che faceva tremare la montagna e le muraglie del castello; dopo poco tempo la terra si spalancò, si aperse una voragine così grande che inghiottì tutto e tutti: la regina, il castello, il vitello e la corona, entrambi tutti d'oro.
Il tesoro dunque c’è! E che tesoro! Nientemeno che un vitello d’oro, ma purtroppo di molto difficile conquista, dal momento che è tanto ben sepolto  e che nessuno l’ha ancora potuto rintracciare.
E sì che lo si è cercato a più riprese, frugando e scavando il suolo in più punti!...


Adesso però, bisogna che io faccia una rivelazione al lettore incredulo. 
Il tesoro della regina sarebbe stato preso in consegna da un arrabbiatissimo stuolo di streghe e di diavoli che, a quanto pare, non intendono mollarlo né per poco né per tanto. Non si sa se abbiano data la loro brava parola d'onore come si usa ancora, qualche volta, tra noi; ma se l’han data, sanno mantenerla certamente.
Fatto sta che, tutte le volte che qualcuno s’è azzardato a scavare lassù, i diavoli, le streghe e gli stregoni, con esemplare ed edificantissima corcordia, hanno montato un tale finimondo di lampi, tuoni, vento e grandine, che questo qualcuno ha dovuto venir via più che in fretta e, qualche volta, con in corpo una drastica tremarella più efficace del più celebre dei purganti, tale insomma da lasciar palesi conseguenze olfattive e far perdere qualsiasi eroica velleità di altri tentativi.
A Brembilla, io ho parlato con il signor Giacomo Rinaldi, il quale si ricordava molto bene di una spedizione notturna di cinque o sei Brembillesi capeggiati da un vecchio di ottantaquattro anni. Questi audaci,armati della più coraggiosa ingenuità e di strumenti adatti allo scavo, una sessantina di anni fa, erano saliti al Castello Regina alla scoperta del vitello d’oro e annesse monete, collane, pietre preziose. Ma un uragano infernale era scoppiato a ciel sereno, proprio nel momento in cui si sentiva il sordo rimbombo dei colpi di piccone sopra certi lastroni di pietra.
Dovettero piantar lì i loro strumenti e fuggire precipitosamente: il prodigio sta nel fatto che, a pochi passi da quel luogo, il cielo era di un azzurro intenso, c'era una serenità paradisiacale che lasciava ammirare una splendida stellata e l'aria era tanto tranquilla. Non parliamo poi dei coraggiosi, reiterati e più recenti tentativi del Pirassì, un gobbetto originale, povero in canna, che viveva di sogni, di speranze e di poco d’altro, sempre in compagnia di una pipetta, rogo perenne dei residui di tabacco di tutta la contrada.


Ebbene, anche il Pirassì, che aveva sfidato più volte i disagi e i pericoli di quella cima, diceva (e se non credete a lui, a chi volete credere?) che ogni volta che egli iniziava i suoi scavi, al momento giusto, anche in  pieno giorno, il cielo si abbuiava improvvisamente e le streghe, con i diavoli, facevano una tregenda giù per i canaloni del Córen Camossér da far accapponare la pelle e costringere alla ritirata.
Così, lettore mio, il tesoro della regina è rimasto intatto nelle viscere del monte e se qualcuno possedesse, per caso, qualche potente scongiuro e avesse abbastanza fegato in corpo per osare di sottrarlo alle grinfie del sire d’Averno, potrebbe ancora tentare la conquista.

"Dove Dio ha costruito una chiesa, il Diavolo costruisce anche lui una cappella".
Martin Lutero

venerdì 26 giugno 2015

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LA CACCIA DEL DIAVOLO
o CACCIA MORTA
 o CACCIA SELVATICA.
Vari paesi delle valli


Una leggenda assai popolare in varie località della Bergamasca è quella della “caccia del diavolo”. In certe ore della notte si potevano sentire su per le montagne dei gruppi di cani che scorrazzavano, abbaiando rabbiosamente di qua e di là, come se stessero inseguendo la selvaggina. Nessuno li aveva mai visti, si potevano solo sentire i loro latrati (1), ma si assicura che chi si trovava a passare da quelle parti poteva anche imbattersi sul loro percorso e doveva scansarsi precipitosamente se non voleva essere travolto dalla furia famelica di quei segugi indiavolati.



Per la verità non si trattava di cani, ma di anime confinate. Precisamente erano le anime dannate di quei cacciatori del paese che in vita “impiccavano” la S. Messa nei giorni di precetto festivo per coltivare la loro passione correndo dietro agli uccelli e alla selvaggina. Dopo la morte, erano condannati a vagare su per i monti, dando vita a un'incessante quanto sterile caccia.
Si tratta di un efficace esempio di pena del contrappasso, degna di figurare in qualche infernale girone dantesco, tanto più che da qualche parte si sussurrava addirittura che alla guida di quella canaglia scatenata ci fosse nientemeno che il demonio in persona.
Sul monte di Zogno e a Spino anche oggi la gente assicura d’aver vista e sentita la “caccia del diavolo” con tanto di date e circostanze, con sicurezza assoluta. La leggenda descrive i segugi guidati dal demonio sui dossi della squallida altura della Müghéra, il monte che sta di fronte al Pizzo e al paese di Spino, tra Ambria e S. Pellegrino, alle prese con una cagna nera, orribile, con gli occhi fiammeggianti, in un contesto di urla infernali e stridere di catene.



A S. Brigida, dall’apertura della caccia in poi, questi spiriti si raccoglievano in una tègia (2) della solitaria valle di Guei e la sera, dopo l’Angelus, sguinzagliavano i loro cani. E poi, tutta la notte, fino all’Ave Maria del mattino seguente, si udiva, di roccia in roccia, da un bosco all’altro, or qua  or là, un frenetico abbaiare di cani invisibili, come fossero lanciati all’inseguimento della selvaggina; ogni tanto, i fischi e gli urli di quei cacciatori di casa del diavolo.
In altri luoghi, come a S. Pietro d’Orzio, vi diranno che gli abbaiamenti dei cani si fanno sentire per aria, con sbalzi e folate improvvise, prima in un punto vicino, poi subito più lontano, al lato opposto, e così via.
Una volta, a Costa Serina, un tale osò dare la voce a quella muta abbaiante: il mattino seguente trovò appesa alla sua porta di casa nientemeno che una gamba umana. Spaventato corse dal parroco, il quale lo consigliò di ripetere la chiamata la notte seguente. Così fece e il macabro pezzo anatomico sparì. Il guaio è che, dicono in alcuni paesi, con queste chiamate si correva il rischio di morte istantanea.
A Gandino la “caccia morta” è guidata da una donna che lasciava in omaggio brandelli di carne e ossa umane a chi le chiedeva parte della selvaggina catturata. Più incredulo degli altri, un tale del monte Farno, al manifestarsi del fenomeno, gridò per burla dalla porta della stalla in cui doveva passare la notte: “Caccia morta, portami la tua selvaggina che voglio provarla!”. Ebbe, anch’egli, la sorpresa di una coscia umana appesa alla porta. Ne fu spaventato, ma giù in paese gli consigliarono di coricarsi, la notte seguente, tra due suoi bambini. Così fece e, all’avvicinarsi della canizza, sentì una voce gridargli: “Hai provato la mia selvaggina? Sei fortunato di trovarti tra l’innocenza, altrimenti l’avresti pagata cara”. Da allora la cascina si chiamò Proada, perché quell’uomo aveva provata (proada), la “caccia morta”.
A Clusone e dintorni la “caccia morta” era costituita da una muta di cani dalle forme mostruose e dagli occhi di fuoco, ululanti e fuggenti rapidamente per le balze dei monti seguiti da ombre umane col fucile ad armacollo.
A Castro non era formata che da quattro cani abbaianti dei quali non si vedeva che l’ombra. Si portavano fulmineamente da una montagna all’altra ed erano preceduti dall’ombra di un cacciatore con un lumino in mano.
Ad Ardesio, nelle sere buie, verso la Corna Rossa, si vedrebbe vagare una bara preceduta da quattro enormi cani neri che portano in bocca candele accese e mandano lugubri latrati.



A Clusone talvolta, ancor oggi, accade che i cani segnino una lepre, abbaiando e dimenando la coda, ma per quanto essi corrano qua e là, condotti dal fiuto della selvaggina, non riescono a scovare nulla. Segno, vi diranno, che è passata la “caccia morta”. E mostrandovi le chiazze d’erba gialliccia e stentata che si vedono in certi pascoli aridi e male coltivati, aggiungeranno che quei cacciatori d’Averno, correndo e sparando per tutta la notte dietro la lepre senza mai coglierla, avevano lasciato in quel modo le tracce dei loro piedi di fuoco. All’alba rientravano nelle loro tombe, ma dove erano passati una volta, per tutto quell’anno, niente lepri… chiedete ai cacciatori del luogo!.

(1)L'abbaiare insistente, intenso, rabbioso, forte e prolungato del cane.
(2)Capanna, cascina d'alpe o di mandriani.

"Non si comprenderebbe l'opera salvifica di Gesù Cristo
 se si negasse l'esistenza di Satana".
Francesco Bamonte

giovedì 25 giugno 2015


LA PIU' GRANDE  TESTIMONIANZA
 DELL'AMORE  PIU' GRANDE
Altare della parrocchia
 "Sacro Volto" di Torino.
SOLENNE OSTENSIONE DELLA SINDONE
19 APRILE - 24 GIUGNO 2015
 DUOMO DI TORINO

COS'E' LA SINDONE.
Sindone: un nome antico che ha origini greche e che significa "telo"Oggi per tutto il mondo la Sindone non è un lenzuolo qualunque ma quello che da oltre quattro secoli è conservato nel Duomo di Torino. E' un telo di lino lungo circa 4,40 m. e largo circa 1,13 m., tessuto a spina di pesce su un telaio primitivo e con filato e tecnica irregolari. Su di esso sono visibili impronte che riproducono l'immagine frontale e dorsale di un uomo morto dopo essere stato torturato e crocifisso. Secondo una tradizione secolare la Sindone è il lenzuolo funerario nel quale fu avvolto il corpo di Gesù di Nazareth dopo la deposizione dalla croce.
"Giuseppe d'Arimatea, comprato un lenzuolo, depose Gesù dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo 
e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia"(Marco 15, 46).

COSA SI VEDE SULLA SINDONE.
Le tracce visibili sulla sindone sono di vari tipi.
Piccoli fori a forma di L.
Bruciature antiche. A fianco sia dell'impronta frontale sia di quella dorsale sono visibili quattro serie di piccoli fori a forma di L dovuti forse alla caduta sul telo di gocce di una sostanza acida e risalenti probabilmente a prima del XII secolo.
Bruciature dell'incendio di Chambéry. Il lenzuolo presenta due linee scure parallele al lato più lungo, intersecate da 22 buchi di forma quasi triangolare che fino al 2002 erano coperti da rattoppi di un tessuto diverso, cuciti dalle suore Clarisse di Chambéry nel 1534. I fori sono dovuti molto probabilmente alla caduta sul telo di gocce di metallo fuso provenienti dall'urna nella quale la Sindone era conservata, ripiegata in 48 parti, durante l'incendio scoppiato nel 1532 nella Sainte-Chapelle di Chambéry, dove all'epoca era custodita. Il calore provocò anche la bruciatura del tessuto, testimoniata dalle due linee scure. In tale occasione le Suore Clarisse cucirono la Sindone su di un telo d'Olanda per rinforzarla. Nel 2002, essendo radicalmente cambiate le condizioni di conservazione, il telo d'Olanda è stato sostituito e le toppe sono state tolte.
Un alone d'acqua.

Aloni d'acqua. Sono macchie a forma di rombo distribuite simmetricamente sull'intero telo. Si tratta di aloni lasciati da acqua che bagnò il lenzuolo probabilmente in occasione dell'incendio del 1532 o in un'occasione precedente.
La striscia longitudinale.

La striscia longitudinale. Lungo il margine superiore della Sindone è stata anticamente cucita una striscia dello stesso tessuto, dalla quale mancano ai bordi estremi due pezzi a forma di rettangolo.
L'impronta frontale (negativo fotografico).


La doppia impronta di un corpo umano. Al centro della Sindone, tra le due linee di bruciatura, è visibile la doppia impronta (frontale e dorsale) di un uomo. Il corpo sembra essere stato appoggiato supino su una metà del lenzuolo, con l'altra metà ripiegata al di sopra. L'intensità dell'immagine appare maggiore in relazione a quelle parti del corpo che erano più vicine al telo e minore, fino a sfumare a zero, per quelle più lontane.
Colatura di sangue sugli avambracci e ferita al polso sinistro.

Macchie di sangue. In alcune zone (come la fronte, la nuca, i polsi, i piedi, il costato) vi sono macchie diverse da quelle del resto del corpo: sono di colore rosso carminio, piane, con contorni netti, cioè non sfumate verso l'esterno; sembra che un liquido sia entrato in contatto con il telo, lasciando una parte di sé sul tessuto. Sono sempre state interpretate come macchie di sangue.


L'IMPRONTA UMANA.
La negatività dell'impronta. Nel 1898 la Sindone venne per la prima volta fotografata e ciò permise di scoprire un fatto sorprendente: l'impronta sindonica si comporta come un negativo fotografico naturale. In altre parole, l'immagine visibile sulla Sindone presenta una distribuzione di luminosità che è opposta a quella che percepiamo nella realtà, esattamente come accade per un negativo fotografico; pertanto è sul negativo che possiamo osservare il vero aspetto dell'uomo della Sindone come se si trovasse di fronte a noi. Ovviamente l'immagine ha la parte destra scambiata con la sinistra e viceversa; pertanto la corretta determinazione dei particolari che stanno a destra o a sinistra dell'immagine la dobbiamo leggere sul negativo fotografico.  
Lo studio dell'impronta. La possibilità di studiare una fotografia e per di più il negativo, molto più chiaro e ricco di particolari, segnò l'inizio degli studi scientifici moderni della Sindone. Il compito degli studiosi fu quello di studiare in modo dettagliato l'impronta, cercando di rispondere ad alcune domande fondamentali su di essa: 

  • Si tratta veramente dell'impronta lasciata da un corpo umano oppure è un'immagine realizzata da un'artista con qualche tecnica artigianale?
  • Se è veramente l'impronta di un corpo umano, è stata lasciata da un corpo ancora vivo oppure da un cadavere?
  • Se è stata lasciata da un cadavere, è possibile risalire alle cause della sua morte? E ricostruire in modo dettagliato ciò che gli è accaduto, perlomeno negli ultimi momenti di vita?
  • E' possibile che un cadavere lasci in modo naturale su di un tessuto un'impronta simile? E attraverso quale processo può essere accaduto ciò?
  • E' possibile risalire all'identità di quest'uomo? O perlomeno, si può stabilire se la secolare tradizione che lo identifica con Gesù di Nazareth può essere accettata oppure no?
A queste domande e ad altre ancora gli studiosi hanno cercato di dare una risposta, utilizzando ovviamente le conoscenze del periodo in cui sono vissuti. In questi ultimi cento anni sono via via aumentate praticamente in tutti mi campi di ricerca, eppure, come vedremo, molte sono ancora le domande alle quali gli studiosi non sanno dare una risposta certa e definitiva.

Tra i primi studiosi della Sindone vi furono i medici legali che si occuparono di studiare l'impronta per capire se corrisponde esattamente a quella di un corpo umano e per descriverne le caratteristiche.
Il volto martoriato dell'uomo della Sindone (negativo fotografico).

Il volto e la nuca. Il volto dell'uomo della Sindone presenta numerose ferite. Sono stati individualizzati degli ematomi, particolarmente visibili sulla parte destra del volto, che si presenta più gonfia di quella sinistra. Altre ferite sono visibili sulle arcate orbitali. Il setto nasale è deviato, a causa di una frattura. L'uomo della Sindone risulta pertanto essere stato selvaggiamente percorso nelle ore precedenti la sua morte. Inoltre sulla fronte, sulla nuca e lungo i capelli si riconoscono numerose colature di sangue che provengono da ferite provocate da oggetti appuntiti di piccolo diametro e sembrano dovute all'imposizione sul capo di un casco di aculei. La colatura più visibile è quella posta al centro della fronte che segue l'andamento delle rughe della fronte, dando origine alla caratteristica immagine a forma di 3 rovesciato dovuta probabilmente ai movimenti del capo.
Il dorso flagellato (negativo fotografico).

"Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare" (Giovanni 19, 1).


Il dorso. Su tutto il dorso e sulla parte posteriore delle gambe sono chiaramente visibili oltre cento piccoli segni lunghi circa due centimetri, uguali tra loro e formati ciascuno da due zone circolari unite da un tratto rettilineo. Sembrano lesioni provocate dal flagello, strumento romano di tortura, costituito da un manico di legno al quale erano legate delle corde al termine delle quali venivano a volte fissati dei piccoli piombi a forma di manubrio. E' difficile stabilire il numero di colpi di flagello inflitti, poiché non si conosce il numero di corde del flagello. E' invece certo che il supplizio venne inferto a schiena curva e sul corpo nudo, in quanto le lesioni sono distribuite su tutto il corpo.
Il flagello, strumento di supplizio di epoca romana.

All'altezza delle spalle si osservano due grandi escoriazioni che sono probabilmente dovute allo sfregamento di un oggetto pesante e ruvido che molto facilmente è il patibulum, il palo orizzontale della croce che a volte il condannato portava su di sé sino al luogo dell'esecuzione.

Sul polso sinistro (negativo fotografico) si osserva una ferita da punta.
Gli arti superiori. Le braccia (la cui immagine non è più visibile a causa delle bruciature del tessuto dovute all'incendio di Chambéry) sono distese, gli avambracci sono ben visibili e le mani si incrociano sul pube, con la mano sinistra sovrapposta alla destra.
Sul dorso della mano sinistra all'altezza del polso è visibile una grande chiazza di sangue, formata da due colature divergenti. Il sangue fuoriesce da una ferita di forma ovale, dovuta ad un oggetto appuntito, come un chiodo, che è penetrato nella mano dall'interno ed è uscito dal dorso. La ferita non si trova nel palmo della mano, come viene presentata in tutte le raffigurazioni artistiche della crocifissione, ma nel polso, esattamente in uno spazio libero tra le ossa del carpo che è chiamato"spazio di Destot". Secondo gli studi di diversi medici la penetrazione del chiodo in tale zona può provocare la lesione del nervo mediano, con conseguente flessione del pollice all'interno del palmo della mano. Questo spiegherebbe l'assenza dell'immagine dei pollici sulla Sindone. L'infissione del chiodo nel polso e non nel palmo della mano corrisponde all'esigenza di fissare saldamente gli arti superiori alla croce: i tessuti del palmo non possono infatti reggere il peso del corpo senza lacerarsi. Il fatto che l'inchiodamento degli arti superiori dei crocifissi non avvenisse nel palmo è stato confermato dal ritrovamento nei pressi di Gerusalemme dello scheletro di un crocifisso del I secolo. Anche sul polso destro è presente una ferita simile a quella del polso sinistro, che non è visibile però perché coperta dalla mano sinistra.
Lungo gli avambracci sono visibili lunghe colature di sangue, che partono dalle ferite ai polsi per risalire sino all'altezza del gomito. Il loro andamento appare innaturale, poiché sembra risalire, contro ogni legge di gravità, verso l'alto invece di colare verso il basso. Il loro percorso è invece spiegabile e naturale, poiché si tratta di colature di sangue formatesi quando il corpo era appeso alla croce e pertanto i polsi si trovavano più in alto dei gomiti.
Le due colate di sangue divergenti visibili sul polso sono dovute alle due diverse posizioni assunte dal condannato sulla croce: quella accasciata e quella sollevata che il condannato era obbligato ad assumere per continuare a respirare e rimane re in vita.
Impronta posteriore dei piedi (negativo fotografico).
Gli arti inferiori. Su entrambe le ginocchia si notano delle escoriazioni, molto probabilmente dovute a cadute, poiché in queste zone, come sulle piante dei piedi, sono state individuate tracce di terriccio.
I piedi sono ben visibili soprattutto nell'impronta posteriore. La pianta del piede destro è impressa per intero, mentre del sinistro è visibile solo la parte vicina al tallone. Ciò suggerisce che la crocifissione sia avvenuta utilizzando un solo chiodo e sovrapponendo il piede sinistro al destro.
Sulla pianta del piede destro si nota il buco di uscita del chiodo, da cui partono dei rivoli di sangue che scendono verso le dita, dovuti quindi all'emorragia avvenuta durante la crocifissione. Altri rivoli scendono verso il calcagno, e sono fuoriusciti dunque al momento della deposizione, quando il corpo si trovava in posizione supina. Poiché sulla croce la gamba sinistra era sovrapposta alla destra, il ginocchio sinistro è stato fissato dalla rigidità cadaverica in posizione più piegata rispetto al destro, in modo tale che l'arto sinistro risulta nell'immagine più corto del destro, come si vede bene nell'impronta posteriore.
"Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua ". (Giovanni 19,34)
Il torace. Sulla parte destra del petto è ben visibile una grande chiazza di sangue larga 6 cm. e lunga 15 cm., che fuoriesce da una ferita di forma ovale di circa 4,5 cm. di larghezza e 1,5 cm. di altezza provocata da una lama che ha colpito il torace tra la quinta e la sesta costola e che è penetrata in profondità, raggiungendo molto probabilmente il cuore. Le caratteristiche di questa ferita sono importanti perché mostrano che essa fu fatta dopo la morte del crocifisso.
Il sangue che esce dalla ferita, infatti, è circondato da un alone, segnato da piccole macchie rosse, dovuto al siero. Ciò dimostra che, prima che il torace venisse ferito, all'interno del corpo del crocifisso il sangue si era già separato nella parte sierosa, di colore giallino, e nella parte corpuscolata (che si chiama così perché contiene i globuli rossi, quelli bianchi, le piastrine, ecc,) di colore rosso. Ma tale separazione avviene solo nei cadaveri.
La colatura di sangue che attraversa la schiena.
La colatura di sangue del torace continua sul dorso a metà schiena, evidentemente per lo svuotamento del sangue ancora rimasto nel torace nel momento in cui il cadavere è stato tolto dalla croce e deposto in posizione orizzontale.
Considerazioni conclusive sul significato dell'impronta. Si può pertanto concludere che la doppia impronta (frontale e dorsale) impressa sulla Sindone presenta caratteristiche che dal punto di vista dell'anatomia coincidono perfettamente con quelle del corpo di un uomo adulto che ha subito una serie di pesanti torture:

  • è stato percosso in volto;
  • gli è stato posto sul capo un casco fatto di aculei;
  • è stato flagellato su tutto il dorso;
  • ha portato sulle spalle una trave pesante;
  • è stato crocifisso  con tre chiodi;
  • è morto sulla croce per asfissia;
  • dopo la morte è stato ferito al torace con una lama.

Si tratta pertanto senza alcun dubbio dell'impronta lasciata dal cadavere di un uomo torturato e crocifisso.
Ben più difficile è riuscire a capire chi poteva essere questo crocifisso così importante da aver avuto una regolare sepoltura in un prezioso telo funebre.
Santella in Valsecca - località Fraccia.
CONFRONTO TRA L'UOMO DELLA SINDONE E GESU' DI NAZARETH.
La passione di Gesù secondo i Vangeli. Tra tutti gli uomini che hanno subito il supplizio della crocifissione (e non devono essere stati affatto pochi nei mille anni o poco più durante i quali tale supplizio è stato usato) il più famoso è senza alcun dubbio Gesù di Nazareth. Non solo perché i cristiani credono che sia il Figlio di Dio fattosi uomo e che sia risorto poche ore dopo la sua morte in croce, ma anche perché la sua passione e la sua crocifissione sono descritte nei dettagli nei quattro vangeli canonici (quelli scritti da Matteo, Marco, Luca e Giovanni) e in alcuni vangeli apocrifi. Mettendo a confronto le descrizioni della passione, della morte e della sepoltura di Gesù fatte dai quattro evangelisti (Matteo 26, 36-28,15; Marco 14, 32-16,8; Luca 22, 39-24,12; Giovanni 18, 1-20,18) con le caratteristiche della doppia impronta della Sindone si nota una perfetta coincidenza di molti particolari che giustifica ampiamente la tradizione secolare che ha da sempre identificato la Sindone di Torino con il lenzuolo funebre in cui fu avvolto il corpo di Gesù dopo la sua morte. E' pero naturale chiedersi se queste coincidenze sono sufficienti per affermare con certezza che l'uomo della Sindone e Gesù siano la stessa persona.
Il metodo del calcolo delle probabilità. Alcuni studiosi hanno pensato di usare il calcolo delle probabilità per provare a verificare quanto è attendibile l'identificazione dell'uomo della Sindone con Gesù. Il calcolo delle probabilità è quel settore della matematica  che si occupa di calcolare il grado di fiducia che si può attribuire al verificarsi di un dato fatto.
Prendiamo in esame le principali caratteristiche comuni a Gesù e all'uomo della Sindone:
Santella in Cepino (S. Omobono Terme) - località Caretti.
  1. L'uomo della Sindone e Gesù dopo la morte sono stati avvolti in un lenzuolo. Questo è un fatto molto raro nei tempi antichi, soprattutto per un crocifisso. Nella maggior parte dei casi i cadaveri dei crocifissi venivano abbandonati sulla croce stessa agli animali selvatici o al più sepolti in fosse comuni.
  2. Sia all'uomo della Sindone sia a Gesù è stato posto sul capo un casco di spine. Questo fatto è veramente eccezionale e non possediamo nessun documento che riporti una tale usanza né presso i Romani né presso altri popoli.
  3. L'uomo della Sindone, così come Gesù, ha trasportato sulle spalle un oggetto pesante che non può essere altro che il patibulum al quale è stato inchiodato.
  4. Sia l'uomo della Sindone sia Gesù sono stati fissati alla croce con chiodi. Questo fatto sembra fosse riservato a crocifissioni ufficiali, mentre nella maggioranza dei casi i condannati avevano le mani e i piedi legati con corde.
  5. L'uomo della Sindone e Gesù sono stati feriti dopo la morte, mentre non presentano fratture alle gambe. E' un fatto praticamente unico, mentre assai più comune era l'usanza di spezzare le gambe ai crocifissi per accelerarne la morte (come spiega il vangelo di Giovanni) quando per qualche motivo bisognava anticipare la conclusione dell'esecuzione.
  6. L'uomo della Sindone e Gesù sono stati avvolti nel lenzuolo funebre appena deposti dalla croce, senza che venisse effettuata alcuna operazione di lavatura e unzione del cadavere. Questo fatto non corrisponde agli usi dell'epoca che prevedevano per una regolare sepoltura prima la lavatura e l'unzione con aromi e poi l'avvolgimento del cadavere nel telo funebre. Si tratta quindi di un caso eccezionale per il quale sono intervenuti alcuni fattori esterni che hanno condotto ad una sepoltura frettolosa, in attesa della sepoltura definitiva. Nel caso di Gesù sappiamo che fu avvolto in un lenzuolo e posto in un sepolcro subito dopo la deposizione dalla croce, a causa della necessità di compiere tale operazione prima del sopraggiungere della sera quando sarebbe iniziata la Pasqua ebraica durante la quale nessun lavoro manuale poteva essere eseguito. La sepoltura definitiva avrebbe dovuto essere eseguita dalle donne due giorni dopo.
  7. Sia l'uomo della Sindone sia Gesù sono rimasti nel lenzuolo per poco tempo. Infatti affinché l'immagine che noi vediamo si sia prodotta è stato necessario che il cadavere sia rimasto dentro il lenzuolo almeno ventiquattro ore ma non di più di due o tre giorni perché altrimenti il processo di decomposizione avrebbe distrutto l'immagine e avrebbe comunque lasciato sul telo macchie ancora oggi visibili e riconoscibili che invece sulla Sindone non sono presenti. Tale fatto è veramente sorprendente poiché non sembra assolutamente ragionevole deporre un cadavere in un lenzuolo (cosa non comune nei tempi antichi) per poi entrare nel sepolcro e toglierlo dopo così poco tempo. Anche Gesù è stato avvolto in un lenzuolo subito dopo la deposizione dalla croce e, dopo un periodo non superiore a quaranta ore, nel sepolcro, custodito da guardie, fu ritrovato il solo lenzuolo mentre il cadavere non c'era più.
    Santella in Rota Imagna - località Cabrignoli.

E' stata assegnata una probabilità ad ognuna di queste sette caratteristiche comuni a Gesù  e all'uomo della Sindone, dando ovviamente un valore maggiore a quelle caratteristiche che è più probabile siano appartenute ad un qualsiasi crocifisso ed un valore minore a quelle più rare, cioè che molto difficilmente si sono verificate per un qualunque crocifisso. Al termine di questo calcolo la probabilità totale, cioè la probabilità che questi sette eventi si siano verificati contemporaneamente, ovvero che queste sette caratteristiche si ritrovino riunite tutte insieme su uno stesso uomo che abbia subito il supplizio della crocifissione, è risultata essere uguale a 1 diviso 200 miliardi. Ciò significa che su 200 miliardi di eventuali crocifissi ve ne può essere stato uno solo che abbia posseduto le sette caratteristiche comuni all'uomo della Sindone e a Gesù che abbiamo preso in considerazione. Poiché è evidente che nella storia dell'umanità non vi possono essere stati 200 miliardi di crocifissi (al massimo qualche centinaia di migliaia o qualche milione) il calcolo fatto permette di concludere che è altissima la probabilità che un crocifisso con queste caratteristiche sia unico e che pertanto l'uomo della Sindone sia proprio Gesù di Nazareth.

Tratto dal magnifico volumetto di Bruno Barberis "LA SINDONE" dell'Editrice Velar. 
Avendo prima lavorato e dopo collaborato per loro per parecchi anni, voglio porgere un cordiale e affettuoso saluto di vero cuore.

PREGHIERA DAVANTI ALLA SANTA SINDONE


SIGNORE GESU',
DAVANTI ALLA SINDONE, COME IN UNO SPECCHIO,
CONTEMPLIAMO IL MISTERO DELLA TUA PASSIONE E MORTE PER NOI.

E' L'AMORE PIU' GRANDE
CON CUI CI HAI AMATI, FINO A DARE LA VITA PER L'ULTIMO PECCATORE.

E' L'AMORE PIU' GRANDE,
CHE SPINGE ANCHE NOI A DARE LA VITA PER I NOSTRI FRATELLI E SORELLE.

NELLE FERITE DEL TUO CORPO MARTORIATO
MEDITIAMO LE FERITE CAUSATE DA OGNI PECCATO:
PERDONACI, SIGNORE.

NEL SILENZIO DEL TUO VOLTO UMILIATO
RICONOSCIAMO IL VOLTO SOFFERENTE DO OGNI UOMO:
SOCCORRICI SIGNORE.

NELLA PACE DEL TUO CORPO ADAGIATO NEL SEPOLCRO
MEDITIAMO IL MISTERO DELLA MORTE CHE ATTENDE LA RESURREZIONE:
ASCOLTACI, SIGNORE.

TU CHE SULLA CROCE HAI ABBRACCIATO TUTTI NOI,
E CI HAI AFFIDATI COME FIGLI ALLA VERGINE MARIA,
FA' CHE NESSUNO SI SENTA LONTANO DAL TUO AMORE,
E IN OGNI VOLTO POSSIAMO RICONOSCERE IL TUO VOLTO,
CHE CI INVITA AD AMARCI COME TU CI AMI.