venerdì 26 giugno 2015

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LA CACCIA DEL DIAVOLO
o CACCIA MORTA
 o CACCIA SELVATICA.
Vari paesi delle valli


Una leggenda assai popolare in varie località della Bergamasca è quella della “caccia del diavolo”. In certe ore della notte si potevano sentire su per le montagne dei gruppi di cani che scorrazzavano, abbaiando rabbiosamente di qua e di là, come se stessero inseguendo la selvaggina. Nessuno li aveva mai visti, si potevano solo sentire i loro latrati (1), ma si assicura che chi si trovava a passare da quelle parti poteva anche imbattersi sul loro percorso e doveva scansarsi precipitosamente se non voleva essere travolto dalla furia famelica di quei segugi indiavolati.



Per la verità non si trattava di cani, ma di anime confinate. Precisamente erano le anime dannate di quei cacciatori del paese che in vita “impiccavano” la S. Messa nei giorni di precetto festivo per coltivare la loro passione correndo dietro agli uccelli e alla selvaggina. Dopo la morte, erano condannati a vagare su per i monti, dando vita a un'incessante quanto sterile caccia.
Si tratta di un efficace esempio di pena del contrappasso, degna di figurare in qualche infernale girone dantesco, tanto più che da qualche parte si sussurrava addirittura che alla guida di quella canaglia scatenata ci fosse nientemeno che il demonio in persona.
Sul monte di Zogno e a Spino anche oggi la gente assicura d’aver vista e sentita la “caccia del diavolo” con tanto di date e circostanze, con sicurezza assoluta. La leggenda descrive i segugi guidati dal demonio sui dossi della squallida altura della Müghéra, il monte che sta di fronte al Pizzo e al paese di Spino, tra Ambria e S. Pellegrino, alle prese con una cagna nera, orribile, con gli occhi fiammeggianti, in un contesto di urla infernali e stridere di catene.



A S. Brigida, dall’apertura della caccia in poi, questi spiriti si raccoglievano in una tègia (2) della solitaria valle di Guei e la sera, dopo l’Angelus, sguinzagliavano i loro cani. E poi, tutta la notte, fino all’Ave Maria del mattino seguente, si udiva, di roccia in roccia, da un bosco all’altro, or qua  or là, un frenetico abbaiare di cani invisibili, come fossero lanciati all’inseguimento della selvaggina; ogni tanto, i fischi e gli urli di quei cacciatori di casa del diavolo.
In altri luoghi, come a S. Pietro d’Orzio, vi diranno che gli abbaiamenti dei cani si fanno sentire per aria, con sbalzi e folate improvvise, prima in un punto vicino, poi subito più lontano, al lato opposto, e così via.
Una volta, a Costa Serina, un tale osò dare la voce a quella muta abbaiante: il mattino seguente trovò appesa alla sua porta di casa nientemeno che una gamba umana. Spaventato corse dal parroco, il quale lo consigliò di ripetere la chiamata la notte seguente. Così fece e il macabro pezzo anatomico sparì. Il guaio è che, dicono in alcuni paesi, con queste chiamate si correva il rischio di morte istantanea.
A Gandino la “caccia morta” è guidata da una donna che lasciava in omaggio brandelli di carne e ossa umane a chi le chiedeva parte della selvaggina catturata. Più incredulo degli altri, un tale del monte Farno, al manifestarsi del fenomeno, gridò per burla dalla porta della stalla in cui doveva passare la notte: “Caccia morta, portami la tua selvaggina che voglio provarla!”. Ebbe, anch’egli, la sorpresa di una coscia umana appesa alla porta. Ne fu spaventato, ma giù in paese gli consigliarono di coricarsi, la notte seguente, tra due suoi bambini. Così fece e, all’avvicinarsi della canizza, sentì una voce gridargli: “Hai provato la mia selvaggina? Sei fortunato di trovarti tra l’innocenza, altrimenti l’avresti pagata cara”. Da allora la cascina si chiamò Proada, perché quell’uomo aveva provata (proada), la “caccia morta”.
A Clusone e dintorni la “caccia morta” era costituita da una muta di cani dalle forme mostruose e dagli occhi di fuoco, ululanti e fuggenti rapidamente per le balze dei monti seguiti da ombre umane col fucile ad armacollo.
A Castro non era formata che da quattro cani abbaianti dei quali non si vedeva che l’ombra. Si portavano fulmineamente da una montagna all’altra ed erano preceduti dall’ombra di un cacciatore con un lumino in mano.
Ad Ardesio, nelle sere buie, verso la Corna Rossa, si vedrebbe vagare una bara preceduta da quattro enormi cani neri che portano in bocca candele accese e mandano lugubri latrati.



A Clusone talvolta, ancor oggi, accade che i cani segnino una lepre, abbaiando e dimenando la coda, ma per quanto essi corrano qua e là, condotti dal fiuto della selvaggina, non riescono a scovare nulla. Segno, vi diranno, che è passata la “caccia morta”. E mostrandovi le chiazze d’erba gialliccia e stentata che si vedono in certi pascoli aridi e male coltivati, aggiungeranno che quei cacciatori d’Averno, correndo e sparando per tutta la notte dietro la lepre senza mai coglierla, avevano lasciato in quel modo le tracce dei loro piedi di fuoco. All’alba rientravano nelle loro tombe, ma dove erano passati una volta, per tutto quell’anno, niente lepri… chiedete ai cacciatori del luogo!.

(1)L'abbaiare insistente, intenso, rabbioso, forte e prolungato del cane.
(2)Capanna, cascina d'alpe o di mandriani.

"Non si comprenderebbe l'opera salvifica di Gesù Cristo
 se si negasse l'esistenza di Satana".
Francesco Bamonte

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