Gita turistica alle città fortificate di Montagnana, Este
e all'ex-monastero di S. Salvaro.
Sii! Anche un mangiachilometri come me, ogni tanto quasi mai, fa il turista ...per caso!
Molti "lasciati" a casa a curarsi ...l'esaurimento dei posti!
Molti volti femminili per me nuovi. Sono le cosiddette "mani lunghe", il terrore delle opere d'arte: saccheggiano, all'ingresso dei vari monumenti, i depliantssss...enza lasciare ...l'obolo!
La nostra guida, di professione Alice, si è molto dilungata nelle spiegazioni in modo colto ed erudito.
Montagnana è una città fortificata racchiusa in mura coronate da merli di tipo guelfo scandite da ben 24 torri e da due fortezze.
Eccoci alla Rocca degli Alberi presso la Porta Legnago... ...e al Castel San Zeno presso Porta Padova.
All'interno del borgo si erge maestoso il celebre Duomo, vero scrigno d'arte, con la Trasfigurazione di Cristo del Veronesenella pala dell'altare.
Ci spostiamo ad Urbana per visitare e, soprattutto, pranzare all'ex monastero di San Salvaro (Santissimo Salvatore). Poco conosciuto, vorrei soffermarmi approfittando di un bel trittico all'interno delle sale.
Il monastero di San Salvaro, fondato nel 1181, venne affidato ai "monaci" agostiniani, che lo ressero per più di due secoli. Esso dipendeva dal monastero di S. Maria delle Carceri. I monaci, che erano anche preti, si occuparono quindi del servizio religioso e della cura delle anime. Col tempo, l'abbazia si arricchì per le molte donazioni.
Nel 1408, agli Agostiniani subentrò la Congregazione benedettina dei Camandolesi, che ressero il monastero fino al 1690. Il loro stemma era costituito da due colombe rivolte verso un calice. Essi seppero amministrare bene il loro cospicuo patrimonio, di oltre 600 campi coltivati specialmente a cereali, vigneti e prati per greggi ed armenti.
La vita dei monaci era austera: essi dovevano indossare abiti semplici e poveri, mangiare e bere con moderazione, parlare poco, ubbidire sempre ai superiori. Le giornate trascorrevano in un alternarsi di preghiera e lavoro: attività agricole e artigianali, trascrizione di manoscritti, produzione di farmaci, insegnamento e assitenza.
Opss!! Ho sbagliato foto. Scusatemi!! Però non ho mai visto un gruppo cosi...unito e che segue con scrupolo quello detto sopra!
A S. Salvaro risiedevano in media 6-8 monaci, con punte di 15 ed uno solo nell'emergenza. Essi reggevano la parrocchia e si distinsero, oltre per gli studi e la preghiera, anche per il lavoro intelligente e la carità verso bisognosi e sofferenti. Le terre si coltivavano con l'aiuto di servi e coloni.
Il monastero riscoprì il valore del lavoro, il cui fine non era il guadagno, ma la salvezza eterna, essendo una forma di preghiera: "L'ozio è nemico dell'anima. Perciò i fratelli devono occuparsi per un tempo determinato nel lavoro manuale e per altre ore nella lettura sacra" (dalla regola di S. Benedetto).
I monaci si organizzarono in modo da essere autosufficienti: in ogni monastero c'erano l'orto, il mulino, la chiesa, la cucina, le stalle, la biblioteca, i fienili, le barchesse, i magazzini... Ogni abbazia aveva le proprie dipendenze: fattorie, centri per il raccolto o granze, chiesette,... Accanto ai monaci c'erano dei laici, i conversi, che li aiutavano.
L'antica Este/Ateste/Athesis/Adige è patria di una dinastia importantissima del periodo medievale:
la Casata dei Marchesi D'Este (da est!).
Il Castello Carresese del 1339 fa da cornice ad un parco pubblico ricco di piante e fiori, dove poter ammirare...
...il Mastio sulla sommità del colle
...la Rocca del Soccorso.
Nel cuore della città merita una tappa obbligatoria...
...la Torre dell'Orologio...
...il Duomo barocco con le reliquie della Santa e con la celebre pala del Tiepolo (Santa Tecla libera la città di Este dalla peste del 1630).
Pultroppo quest'ultima è in restauro e non l'abbiamo potuta vedere. Peccato!
Siamo all'imbrunire e la temperatura si avvicina allo zero.
Un pò di...Tiepolo ci faceva piacere!
giovedì 26 novembre 2015
I sontuosi viali parigini dove si può mangiare un croissant in un caratteristico bistrò,
vedere un francese passeggiare con una baguette sotto il braccio e
ascoltare una musica per fisarmonica...anzi, pardon, per musette.
Non si ferma la MUSICA.
IL VALORE DI UN SORRISO
Un
sorriso non costa nulla e rende molto.
Arricchisce
chi lo riceve,
senza
impoverire chi lo dona.
Non dura
che un istante,
ma il suo
ricordo è talora eterno.
Nessuno è
così ricco da poterne fare a meno.
Nessuno è
così povero da non poterlo dare.
Crea
felicità in casa,
è
sostegno negli affari,
è segno
sensibile dell'amicizia profonda.
Un
sorriso dà riposo alla stanchezza;
nello
scoraggiamento rinnova il coraggio;
nella
tristezza è consolazione;
d'ogni
pena è naturale rimedio.
Ma è bene
che non si può comprare,
né
prestare, né rubare,
poiché
esso ha valore solo nell'istante in cui si dona.
E se poi
incontrerete talora chi non vi dona l'atteso sorriso,
siate
generosi e date il vostro;
perché
nessuno ha tanto bisogno di sorriso
come chi non
sa darlo ad altri.
Poesia di Padre Frederick William Faber (1814 - 1863), fondatore dell'Oratorio di Londra.
Sergio Procopio e i ragazzi dell'Oratorio di Locatello...qualche anno fa!.
lunedì 23 novembre 2015
U.O.E.I.- Sezione di Bergamo
22 novembre 2015 - Asti
(Sentiero del Malvasia)
da Castelnuovo Don Bosco all'Abbazia di Vezzolano di Albugnano
Settantotto...ripeto!...78...partecipanti a questa semplice, stupenda camminata tra cultura e sapori della terra piemontese, accompagnati passo per passo dalla nostra guida-cicerone, tra un sole caldo e un cielo azzurro, tra vigneti di Freisa e Bonarda, tra piccole chiese "seminate" sulle colline astigiane in questo autunno con i colori ancora "vivi", in un paesaggio a 360° con la cornice delle Alpi, tra cui stanziavano
il gruppo del Bianco e la "punta" del Monviso!
Bello! Belloo!! Bellooo!!!
La partenza è dalla chiesa romanica di S. Eusebio (sec. XII), la più antica chiesa di Castelnuovo Don Bosco.
Il nostro cicerone ci ha aperto le porte alla sua storia e alla sua cultura.
Il Santo è in abito vescovile, ma con la mitra ai suoi piedi ad indicare che era stato deposto per un certo tempo.
In alto, la Madonna di Oropa.
Adasi, senza afanè, verso la chiesetta romanica di Santa Maria di Cornareto tra un panorama ...ripeto anche se sarò noioso ma franco ...come la nostra guida Franca!! ...a 360° gradi!
Edificio del sec. XII conobbe una lunga fase di declino e abbandono.
La parte che conserva meglio l'aspetto originale è l'abside.
Cosa volete che vi dica! L'atmosfera è così meravigliosa ...quasi magica ...che anche le ...ombre ci seguono!
Con un lungo filare di...vite umana, andiamo verso la chiesa barocca di S. Michele con il suo straordinario biancospino di età secolare.
Passiamo vicino alla Canonica di Santa Maria di Vezzolano in Albugnano: la visiteremo con calma
in pomeriggio accompagnati da Franca la nostra guida-verità.
Andiamo ad Albugnano, il balcone sul Monferrato, per il pranzo:
un grosso numero di persone mette le gambe sotto il tavolo.
Un gruppetto, il più saggio, si nutre lo stomaco con un panino e la vista con la catena delle Alpi
che, sullo sfondo blu, sembra in 3D.
Sotto "l'olmo del ciabattinno" la foto ricordo. Messo a dimora nel 1727 vegetò fino al 1980.
Con vicino le nostre ragazze sembra più giovane ...o sono loro che ...boccaccia mia statte zitta!!
La visita alla chiesa romana di S. Maria di Vezzolano dura circa un ora e mezza.
Troppe le cose da dire ...non finirei più...mi farò aiutare da una poesia.
"Benvenuto pellegrino
che sei venuto da Torino,
dall'Europa, da lontano
per mirare Vezzolano.
Hai percorso un territorio
che di santi è reliquiario:
pieno di vedute belle,
di romantiche cappelle,
di castelli zona insigne
con sentieri, boschi e vigne.
Sei nell'isola di Terra
che tesori ti disserra.
Qui la chiesa di Maria
reca il nome di Abbazia,
ma Canonica fu eretta
in un tempo senza fretta".
"La lunetta sul portale
non ha l'angelo con l'ale;
di colomba reca il segno
e l'annuncio come pegno".
"All'interno la navata
nello spazio modulata,
e al pontile colorato
il trionfo sta effigiato".
"Poi nel chiostro il godimento
degli affreschi del Trecento,
che di storie e personaggi
raffiguran scene e omaggi".
........
Abbiamo sforato l'ora di chiusura.
Ma, credetemi, ne valeva proprio la pena!
E domenica prossima un'altra gita turistico-culturale a Este
e Montagnana, che da diverse settimane è andata dal dottore in quanto ...esaurita!!
Ciao!
Dimenticavo: qui oggi nevica!!
venerdì 20 novembre 2015
LACRIME
(tratto dal romanzo di Federico Moccia)
Nessuno
fa caso all’acqua
che
evapora dopo le piogge,
quando
torna il sole.
Poco
importa se in quell’acqua
ci
sono anche le lacrime
spese
a piangere
per
amore, per dolore.
L’acqua
evapora, torna nell’aria
e
torna nei nostri polmoni,
respirando
il vento che ci investe il viso,
e le
lacrime tornano dentro di noi,
come
le cose che abbiamo perso.
Ma
nulla si perde davvero.
Ogni
secondo che passa,
ogni
luna che sorge
non
fanno altro che dirti:
vivi,
vivi e ama quello che sei,
comunque
tu sia, ovunque tu sia,
guarda
in alto verso il sole,
chiudi
gli occhi e non stancarti
mai
di sognare.
La
vita è troppo breve per
non
essere felici.
mercoledì 18 novembre 2015
5. IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DELLA GRUMELLINA
IL PROCESSO AL COLONNELLO FRANCESCO PAOLO TURCO
GAM GAM (chi canta prega due volte )- CANTO EBRAICO
Non molte persone sono a conoscenza di questo campo di concentramento sul territorio bergamasco. Sono pagine, dunque, da leggere assolutamente e con attenzione.
Le descrizioni e le testimonianze sono tratte dal libro “The towrer of silence
- Storie di un Campo di prigionia - Bergamo 1941/1945”.
"Si uccide troppo poco": è con queste parole che il Generale
dell’Esercito Italiano Mario Roatta e Generale Comandante in Croazia intendeva “ripulire”
la Croazia, dopo l’aggressione fascista e nazista dell’aprile 1941.
Gli slavi erano considerati esseri inferiori, pericolosi e
da deportare per far posto ai “coloni italiani”. In questo contesto nascono
numerosi campi di concentramento per slavi in Italia; il più delle volte, come
per il campo di Gonars, in provincia di Udine, delle vere e proprie anticamere
della morte.
La Centrale elettrica di Lallio che ospitava i prigionieri.
Il campo di concentramento P.G. 62 sorgeva a cavallo dei
confini tra i comuni di Bergamo e di Lallio; precisamente in località Grumello
del Piano che era (ed è tuttora) un quartiere della città. Era comunemente
conosciuto come “il campo della Grumellina” ma nei documenti la località era
indicata in due modi diversi: o “Grumellina-Lallio” oppure “Grumello del
Piano”. Bergamo non compare mai in modo ufficiale, ma figura solamente
sull’indirizzo di alcune lettere ricevute da alcuni prigionieri del campo.
L’area su cui sorgeva era molto ampia ed era caratterizzata
da due blocchi di costruzioni. Il primo, sul territorio del comune di Bergamo, era
costituito dai locali dell’ex bottonificio. Comprendeva: l’ingresso principale,
che si apriva sulla statale 525, che incorporava anche la linea del tram
Bergamo-Monza, una palazzina, sede del comando e residenza del comandante, e
quattro capannoni industriali. Qui erano situati i servizi principali del campo
fra cui: la logistica, i magazzini, le cucine e i dormitori dei soldati.
Il secondo, sul territorio del comune di Lallio, era
costituito dalla struttura della grande centrale elettrica a carbone che
all’epoca era già dismessa. Praticamente un’unica costruzione molto ampia dove
erano sistemate le “camerate” dei prigionieri.
Il complesso comprendeva anche una grande vasca d’acqua,
alimentata dal torrente Oriolo e che serviva per il raffreddamento delle
turbine, e da un’alta ciminiera (ancora oggi esistente).
Fra le due grandi costruzioni passava una piccola strada (via delle rose) che collegava Grumello del Piano a Curnasco, chiusa al passaggio
in quanto tutta l’area era stata recintata con un doppio reticolato.
I soldati dell’esercito italiano garantivano la sorveglianza
con ronde e postazioni fisse in garitta e in altana.
Interno del Campo di concentramento.
Il numero dei prigionieri mediamente rinchiusi era di
3.000/3.500 uomini, in un primo tempo quasi tutti slavi, considerati internati
militari e pertanto non sottoposti alla tutela della Convenzione di Ginevra, a
cui si aggiunsero più tardi: greci, ciprioti e, con l’apertura del fronte africano,
inglesi, sudafricani, senegalesi, francesi.
Dalla testimonianza del sig. Cabra Stefano ex guardia del
campo: “Periodicamente, ogni due mesi circa, partivamo dalla stazione di
Bergamo, io, il tenente Trombetta e altre guardie, e andavamo a Lubiana a
prendere i prigionieri. I viaggi di andata, ma soprattutto quelli di ritorno,
non erano semplici: il treno, specie nel territorio della ex Jugoslavia, veniva
spesso attaccato dai partigiani di Tito. Ricordo che un giorno ero al
finestrino con un commilitone di nome Muzzio, quando arrivò una fucilata che
asportò l’intera mano al Muzzio. Trasferivamo i prigionieri a gruppi di
due/trecento e arrivati alla stazione di Bergamo, li portavamo al
campo, naturalmente a piedi”.
Le vasche di lavaggio adoperate dai prigionieri.
Da un documento stilato da una delegazione della Croce Rossa
Svizzera: “All’ingresso si trovavano due edifici adibiti a spaccio, una bottega
dove lavoravano i sarti e i calzolai, il magazzino in cui venivano depositati i
pacchi della Croce Rossa e l’edificio contenente le docce. Sulla destra
c’erano otto fontane dove veniva lavata la biancheria e nell’edificio adiacente
si trovavano i servizi, sulla sinistra i dormitori. Tutti questi edifici erano
cinti da filo spinato e avevano al centro uno spiazzo dove venivano effettuati
gli appelli, venivano distribuiti i pasti e si poteva praticare dell’attività
sportiva. Al di là dell’area recintata si trovava un edificio adibito ad
infermeria e un orto dove erano coltivate le verdure e le patate per il campo.
I dormitori erano forniti di una tripla fila di letti di legno, dotati di
materassi di paglia, due coperte di lana e lenzuola. Le file di letti erano
distanziate tra loro di 6,5 piedi (1 piede = 0,3048 m.) e 4,9 dal muro,
quindi, secondo i delegati svizzeri, le stanze non davano l’impressione di
essere sovraffollate. Le truppe di colore appartenenti alle forze gaulliste
erano separate dagli altri prigionieri; stavano al pianterreno, dove si trovavano
temporaneamente anche alcuni prigionieri britannici, che sarebbero poi stati
inviati ai distaccamenti di lavoro di lì a pochi giorni”.
Il comando del campo era affidato al Tenente Colonnello
Francesco Paolo Turco nato ad Altamura il 4 gennaio 1890.
Dai documenti è emerso che l’ordinamento del campo era
diviso per settori. Ne conosciamo sicuramente almeno due: il “Primo Settore”
comandato dal Maggiore Spazzini, ed il “Secondo” comandato dal Sottotenente Salamano. Il Capitano De Paruta ed il Capitano Cozzolino erano due
interpreti. Grillo era un ufficiale medico. Il sig. Cabra, nella sua
testimonianza, ricorda il nome di altri due ufficiali: il Capitano Sciacqua
di Cremona ed il Tenente Trombetta di Cellatica (Brescia), che comandava il
distaccamento di Caravaggio.
Già dal 1941 i prigionieri vennero portati nelle cascine a
lavorare nei campi al posto dei contadini bergamaschi impegnati al fronte. Le
cascine di Caravaggio, Mozzanica, Capralba, Pandino, Brignano, Fornovo, ne accolsero molti.
Il signor Attilio Bizzioli ricorda che: “erano un pò scarsi
nel lavoro dei campi ed erano debilitati dagli stenti e dalla fame”. Dall’8
settembre del 1943, con l’arrivo dei tedeschi un elevato numero di prigionieri
venne impiegato nella costruzione di fortificazioni antiaeree nella zona di
Dalmine, altri nell’estrazione di ghiaia dal greto del fiume Serio in località
Padergnone fra i comuni di Zanica e Grassobbio (testimonianza del sig. Cabra),
ed altri ancora negli sbancamenti di terreno intorno al campo di Aviazione
Militare di Orio al Serio.
Dalla testimonianza del sig. Agazzi Luigi di Lallio: “Ricordo
che i prigionieri li portavano fuori a lavorare; le vasche di depurazione dello
stabilimento della Dalmine sono state costruite da loro”.
Gruppo di prigionieri all'interno del Campo.
Comunicato radio del Capo del Governo, maresciallo d’Italia
Pietro Badoglio con il quale si annunciava l’entrata in vigore dell’armistizio
firmato con gli anglo-americani:“Il governo italiano, riconosciuta
l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza
avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla
Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo
delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte
delle forze italiane in ogni luogo”.
L’annuncio dell’armistizio con gli Alleati e della fine
dell’alleanza militare con la Germania, fu da molti erroneamente interpretato
come la fine della guerra. La confusione fu totale; la completa mancanza di
ordini da parte degli alti comandi abbandonò di fatto le forze armate italiane
in un vuoto assoluto.
Dalla testimonianza del sig. Santini Giulio: “Ricordo che il
9 (settembre 1943) stavo lavorando alla Caproni…abbiamo iniziato uno sciopero
e mentre tornavo a casa, per strada c’erano tutti i prigionieri che erano evasi
dal campo della Grumellina. Andavano verso nord per raggiungere la Svizzera, da Como. Insistevano
per andare in Svizzera”.
Gli abitanti dei paesi limitrofi, approfittando della
confusione del momento, entrarono nel campo e prelevarono tutto quanto fosse
possibile prelevare: generi alimentari, coperte, legname da ardere ed anche le
armi.
Dalla testimonianza del sig. Agazzi Luigi: “Quando sono
scappati tutti i prigionieri, siamo entrati nel campo e abbiamo portato via
tutto quello che si poteva prendere; abbiamo mangiato bene per qualche mese”.
Buona parte delle armi venne portata via dai partigiani,
anche se con azioni personali e senza un vero coordinamento.
Dalla testimonianza del partigiano sig. Previtali “Luciano”:
“Siamo andati alla Grumellina con il solo compito di recuperare le armi. Molti
soldati avevano gettato il fucile per scappare; addirittura qualche soldato
rimasto ci consegnò direttamente l’arma. Avevano perso ogni volontà di
combattere. Le abbiamo portate a Sforzatica e nascoste nei fienili dei
contadini”.
Gruppo di prigionieri.
Dalla testimonianza del sig. Santini Giulio: “Subito dopo
l’8 settembre sono arrivati i tedeschi, che scendevano dal Brennero con i carri
armati e percorrevano l’autostrada che allora era ad una corsia. Si erano già
attivati”.
Il campo passa sotto il comando tedesco della Luftwaffe di
stanza all’aeroporto militare di Orio al Serio.
Dalla testimonianza del sig. Stefano Cattaneo che ricorda
quanto gli raccontava il padre: “Le condizioni di vita all’interno del campo
erano particolarmente dure, sia per il freddo che per la scarsità degli
alimenti; ricordo che mi raccontava che mangiavano le bucce delle patate”.
I tedeschi, aiutati dai fascisti e dalle loro spie,
cominciano subito i rastrellamenti per ritrovare i fuggiaschi ed i militari italiani considerati disertori, e riportarli al campo. Durante i
rastrellamenti fu recuperato molto del materiale trafugato, ed anche una parte
delle derrate alimentari, sulle quali molte famiglie avevano fatto affidamento.
Nel campo gestito dai tedeschi, vengono rinchiusi per la
prima volta anche militari italiani rei di non aderire alla Repubblica di Salò.
Nel tentativo di recuperare le armi, il comando tedesco
intimò la restituzione minacciando severe rappresaglie sulla popolazione; ma le
armi recuperate comunque non furono molte.
Gruppo di prigionieri.
Le famiglie della zona ebbero un ruolo estremamente
importante: nascosero e sfamarono molti prigionieri e divisero con loro il poco
cibo che c’era. Essere scoperti poteva voler dire la morte o la deportazione
per tutta la famiglia.
Dalla testimonianza della sig.ra Poli Lidovina: “Quando l’8
settembre i cancelli del campo si sono aperti, in molti vennero proprio lì a
cercare un primo rifugio. Allora avevo solo otto anni ma ricordo molto bene che
i primi ad arrivare furono due prigionieri di colore, senegalesi. Mio papà era
da poco tornato dalla Germania, e con non poche preoccupazioni li nascose nella
stalla”.
Dalla testimonianza della sig.ra Clementina Villa: “Quando
nel ‘43 sono scappati i prigionieri ero ancora piccola, avevo dodici anni. A
casa nostra ne avevamo nascosti cinque, slavi, che dormivano nel fienile”.
Dalla testimonianza sig. Licini Tarcisio: “I prigionieri
nascosti da queste famiglie erano scappati dal campo addirittura nel 1941,
attraverso un buco nel reticolato verso la strada provinciale Bergamo-Dalmine.
Da qui si erano gettati nel sottostante fossato che dopo pochi metri si
diramava, passando sotto il provinciale stesso, e puntando in direzione di
Stezzano”.
La famiglia Togni con quattro prigionieri: il primo seduto a sinistra e i tre sulla destra, due in piedi, uno seduto.
Tratto da “Il silenzio dei giusti” edito dal Comune di
Palazzago:
“Si costituì un’organizzazione di aiuto e di assistenza, e
vennero impiegate tutte le forze disponibili alcune delle quali anche appartenenti al clero, come quella di don Benigni di Palazzago che con il suo
gruppo, formato soprattutto da giovani del paese, nascondeva i prigionieri
nelle molte cascine della zona compresa fra Palazzago, Barzana, Burligo, e
Colle Pedrino, per poi accompagnarli prima sul monte Roncola, poi verso il
monte Resegone e da lì individuare la via più sicura per scendere a Lecco oppure
in Valsassina.
L’attività delle prime bande partigiane è rivolta quasi
esclusivamente all’espatrio dei prigionieri verso la Svizzera. Dopo un inizio
un po’ improvvisato dove si studiarono i primi itinerari ed i giusti contatti,
si delinearono due organizzazioni: una coordinata dal Partito d’Azione,
operante nella zona di Dalmine, e l’altra coordinata da alcuni esponenti del
clero. Diverse erano le vie seguite per portare in salvo i prigionieri, dalle
più semplici come quella di Lecco-Acquaseria-Val Cavargnia-Svizzera, alle più
difficili come Barbellino-Passo della Caronella-Valtellina-Tirano-Svizzera.
Alcuni prigionieri si aggregarono alle formazioni
partigiane, ed ebbero un ruolo attivo nella lotta di liberazione come Raimond
Marcel Jabin dell’esercito francese (Martiri di Cantiglio).
Bergamo, 31 Maggio 1944. Manifesto di avviso alla popolazione.
Da“IL GIORNALE DEL POPOLO” di Bergamo
Mercoledì 10 Aprile 1946.
Si è iniziato lunedì e terminerà oggi alla Corte militare
alleata il processo a carico del Colonnello Francesco Paolo Turco, di Altamura, comandante, nel luglio 1943 del Campo di Concentramento dei prigionieri
di guerra di Orio al Serio. Egli è accusato di avere il 16 luglio ordinato ad
un gruppo di prigionieri di eseguire alcuni lavori di ampliamento delle piante colmando dei fossati per costruirvi dei terrapieni. Essendosi i prigionieri
rifiutati dicendo che l’ordine era contrario alla convenzione di Ginevra sui
lavori dei prigionieri di guerra, il Colonnello Turco li diffidò ad iniziare
subito il lavoro, pena la fucilazione. Non essendo stato ubbidito, chiamò
presso di sé il primo prigioniero della prima fila - un cipriota suddito
inglese - rinnovandogli l’invito. Nuovo rifiuto. Allora il Turco chiamò un
soldato italiano ordinandogli di fucilare il ribelle, ma quegli parve titubare
alquanto; il colonnello gli tolse il fucile e a due metri di distanza
sparò contro il prigioniero.
Colpito all’addome, ad una coscia e in altre parti del corpo
il ferito fu trasportato all’ospedale di Bergamo dove decedeva. Da ciò l’accusa
di omicidio. Nel suo interrogatorio il Colonnello Turco si è difeso asserendo,
fra l’altro, che secondo la legge italiana egli non è colpevole. Numerosi sono stati i testi sentiti, fra i quali monsignor Testa che visitò il campo di Orio. Ieri hanno parlato l'avvocato difensore Riva di Bergamo e l’accusatore Maggiore Williams.
Oggi si avrà la sentenza.
Da “IL GIORNALE DEL POPOLO” di Bergamo
Giovedì 11 Aprile 1946.
Il Colonnello Francesco Turco, accusato dell’uccisione di un
prigioniero alleato nel campo di concentramento di Orio al Serio e perciò
incluso nella lista dei criminali di guerra, è stato condannato a morte,
mediante fucilazione nella schiena, dalla Corte Suprema alleata.
La sentenza ha profondamente commosso il pubblico, che ha
fatto ressa intorno all’aula e nei corridoi del Palazzo di Giustizia,
improvvisando una violenta manifestazione di protesta.
Il colonnello Turco, è stato acclamato al grido di «Viva
l’Italia» e «Viva l’Italia» egli stesso ha gridato, salutando militarmente
quando è salito sul camion che lo ha portato in carcere.
Da “L’ECO DI BERGAMO”
Giovedì 11 aprile 1946.
La Corte Militare Alleata di Milano ha emesso ieri, dopo un
lungo dibattito, la sentenza di morte contro il Colonnello Francesco Paolo Turco, imputato di aver ucciso un
prigioniero cipriota sul campo di Orio al Serio.
Difeso dall’avvocato Riva della nostra città il Colonnello Turco
si è discolpato affermando di aver agito per dovere verso se stesso e verso la
disciplina militare, sentendosi disobbedito da un soldato. “L’ho giurato - egli
ha aggiunto - e confermo coscienziosamente di aver agito secondo la legge
italiana e com’era mio dovere di soldato”. Dopo trequarti d’ora di
deliberazione, il presidente legge la sentenza della corte, che l’interprete
comunica all’imputato: “La Corte vi ha condannato alla fucilazione”. Il
Colonnello Turco ascolta pallidissimo. Nessuna attenuante infatti è stata
concessa al condannato. Il presidente riprende: “Questa sentenza dovrà essere
confermata dal comando supremo alleato. La Corte intanto esprime la propria
intenzione di presentare raccomandazioni perché la pena di morte sia
commutata”. Come il Colonnello Turco sta per uscire dall’aula la folla gli
improvvisa una manifestazione di simpatia, al grido di «Viva l’Italia»!. Il
condannato risponde a sua volta: «Viva l’Italia»!
Dal RAPPORTO GENERALE DELLA RIUNIONE DELLA CORTE MILITARE tenuta
nel palazzo della giustizia per il processo del Colonello Francesco Paolo
Turco.
Milano l’8-10 aprile 46.
Il buon carattere dell’accusato fu prodotta dalla Prova
Documentale e l’avvocato difensore lanciò un appello per la mitigazione della
pena, sottolineando che il figlio di Turco combattè con gli alleati in Italia.
La Corte condannò l’accusato a morte per fucilazione,
aggiungendo una forte raccomandazione per grazia.
Il Colonnello Goodwin fu ordinato nel giorno come Testimone
Mandatario all’esecuzione. L’accusato fece sapere la sua intenzione di fare
una petizione contro la sentenza e la condanna.
Il Maggiore Generale Heydeman raccomandò che la sentenza
dovesse essere commutata in sette anni d’imprigionamento.
Il 14 maggio 1946 il Commando Supremo Alleato confermò che
la sentenza e la condanna della Corte dovevano essere commutate in quindici
anni di prigione.