domenica 1 agosto 2021

LA FONTANA DELL'ORSO

A Peghera, la zona Pianfrino, alcuni secoli fa, era pressoché disabitata e nello stesso posto dove ora ammiriamo la fontana in pietra con la testa d’orso dalla cui bocca sgorga l’acqua fresca, c’era ugualmente una sorgente che alimentava una semplice pozza limitata da una cerchia di grossi sassi a uso abbeverata per gli animali che pascolavano nei vasti prati circostanti. Sul far del tardo autunno, un’orsa, per il gran freddo era calata dalle Alpi fino in Valle Taleggio trovando rifugio nel “Bùs del Tadeo” sotto Piazzoli. Vi rimase per cinque lunghi mesi durante i quali, nel dormi-veglia, perché tale è il riposo invernale dell’orso, aveva dato alla luce e allattato un piccolo orsacchiotto. Si svegliò finalmente dal lungo letargo e affacciandosi all’ingresso del grande buco, l’orsa, un po’ abbagliata dalla luce del giorno, si lasciò cadere per circa due metri su un piccolo pianoro, e, appoggiandosi sulle quattro zampe, si sistemò con la schiena ben sotto il ciglio della grotta. Invitava il suo piccolo a lanciarsi con tranquilli ”ruglii” (sì l’orso tranquillo “ruglia”, quando invece è arrabbiato ”bramisce”). Aveva paura l’orsacchiotto, ma il desiderio di raggiungere la mamma era più forte; si fece coraggio e fece un tuffo nel vuoto. Planò felicemente sul vasto morbido dorso della madre che sapeva di buono e di caldo. Insieme seguirono una sorta di sentiero tra gli alberi ancora spogli dirigendosi verso est alla ricerca di qualcosa da mangiare. L’orsa, sotto le foglie di faggio, trovò dei piccoli semi e dei piccolissimi funghetti: non certo un cibo prelibato, ma tanta e tale era la sua fame, che ne mangiò un bel po’. Il piccolo era schizzinoso, preferiva di gran lunga attaccarsi ancora alle mammelle della mamma. Dopo un lungo cammino attraverso il bosco finirono in un grande prato dove c’erano le stalle. Su una parete della baita erano sistemate su un asse delle arnie. Le api erano ancora mezze addormentate. L’orsa che conosceva bene il loro comportamento sapeva come avvicinarsi a un alveare e come poter rovistare, con una decisa zampata, un’arnia mettendo a nudo ciò che conteneva. Il dolce miele fu una vera risorsa per entrambi. Si tennero lontani da un gruppo di case abitate dall’uomo e giunsero finalmente alla sorgente della zona Pianfrino. L’acqua era fresca, limpida e dissetante. Mamma orsa ne bevve a sazietà, un po’ meno l’orsacchiotto che si era nutrito abbondantemente con il latte materno. A un tratto si udirono non lontani il suono di campanacci e l’abbaiare di un cane pastore: una piccola mandria si avvicinava pe l’abbeverata. Mamma ora, preoccupata per il suo piccolo, lo prese delicatamente per la collottola e caracollando velocemente risalì la china verso il bosco e si nascose sotto un tronco d’albero caduto. Per alcune settimane rimasero in zona cercando però di non farsi vedere dall’uomo. Adagio adagio anche l’orsacchiotto sapeva scegliere le foglioline più dolci e le bacche più saporite con cui saziare la sua fame ricorrendo all’occorrenza di tanto in tanto a una bella poppata della mamma. Diventava così di giorno in giorno sempre più robusto. L’orsa si cibava di foglie tenere e d’insetti che riusciva a scovare sotto la corteccia degli alberi. Una volta aveva perfino catturato un agnello che si era allontanato dall’ovile. Ma due orsi non possono rimanere troppo a lungo nei pressi delle abitazioni dell’uomo senza incorrere in serio pericolo per i guai che procurano. Infatti i mandriani avevano scoperto segni certi della loro presenza e stavano quindi sempre all’erta armati di bastoni e forconi. Purtroppo uno possedeva un archibugio che aveva portato con sé dalla guerra. Un brutto giorno, all’imbrunire, gli orsi, intenti presso la fresca sorgente a bersi una bella boccata d’acqua, furono sorpresi dal contadino armato. Mamma orsa lanciò terrorizzata un bramito pauroso che fece fuggire l’orsacchiotto a zampe levate verso il fitto bosco senza mai più fermarsi. Un colpo che sembrava una cannonata si udì nel silenzio del crepuscolo e mamma orsa avvertì un dolore lancinante dietro la spalla sinistra cadendo a terra senza vita.



Naturalmente il contadino ebbe il plauso di tutti i suoi amici che con un sospiro di sollievo finalmente potavano ritenersi al sicuro con il loro bestiame. La pelle dell’orsa era un trofeo prezioso. In occasione della festa patronale di San Giacomo fu messa all’asta per il miglio offerente. Il ricavato sarebbe stato donato alla parrocchia per la ristrutturazione del tetto della chiesa. Il 25 luglio, per la festa, giunsero a Peghera tante persone della valle. Un signore benestante di Vedeseta partecipò “all’incanto” della pelle dell’orsa e vinse il trofeo simbolo di forza e di spirito guerriero. Lo portò trionfante a Vedeseta. Sapeva che il travestimento da orso poteva essere anche simbolo di grande coraggio. Non ne fece un giaccone, ma decise di indossare la pelle dell’orsa a carnevale nella tradizionale sfilata delle maschere. Da allora per lungo tempo, fino agli anni cinquanta del secolo scorso, il corteo mascherato di Vedeseta raggiungeva le contrade vicine, arricchito di un personaggio interamente ricoperto dalla testa ai piedi da una pelle d’orso tenuto alla catena da un forzuto domatore che catturava l’ammirazione mista a timore di grandi e piccini.

Nessun commento:

Posta un commento