lunedì 30 agosto 2021

 GALDI - 29 agosto 2021


DISTANZA: km15,300 - DISLIVELLO: in salita m660, in discesa m660

Ringrazio l’amico Antonio Carminati del Centro Studi Valle Imagna per il testo, di cui ho dovuto fare un riassunto per…motivi di spazio.
Mi spiace…soprattutto per voi!

Quanti beni possediamo, di cui ignoriamo l’esistenza, o non ne abbiamo ancora ben compreso il valore! Uno di questi, oggi a rischio di scomparsa, è il tradizionale tetto in piode delle antiche case e stalle della valle Imagna, che veniva ancora costruito sino ai primi decenni del Novecento. L’edilizia rurale della valle è stata fortemente caratterizzata dall’utilizzo della pietra, dalle fondamenta delle costruzioni, grandi e piccine, abitative e produttive, sino alla copertura. Le antiche contrade appaiono come roccaforti murate, con le case-torri posizionate sulla cinta esterna, muri di delimitazione delle corti negli altri ambiti interni, strutturate attorno ad un impianto urbanistico e difensivo efficace. Troppi elementi architettonici sono andati perduti per sempre, primi tra tutti i tetti in piöde (lastre di pietra).
Öna cà sénsa ol sò tècc, l’è compàgn d’ü óm sénsa ol capèl (una casa senza tetto è come un uomo senza cappello). Va ricordato che il contadino un tempo si toglieva il cappello solo in chiesa e davanti alle persone importanti. Teneva il cappello intesta anche in casa, anche durante a tavola. Siamo forse sognatori?... Forse sì. Sta di fatto che, ogni volta che ci troviamo di fronte a una casa o a una stalla o a un casello o a una fontana o a un tetto di piöde… rimaniamo affascinati ad ascoltare il canto, anzi il lamento di quelle pietre… Sono le pietre calcaree presenti sul versante orografico sinistro della valle: le pride, utilizzate nelle murature per la loro consistenza, e le piöde, lastre di ardesia ideali per pavimentazioni e coperture di tetti. Famiglie di pecapride hanno dato vita a una tradizione professionale ancora oggi ricercata. Sono rimasti attualmente in pochi quelli in grado di intervenire sui tetti in piöde. Unici nel loro genere in tutto l’arco alpino, i tetti tradizionali di piöde, solitamente a due falde molto inclinate nelle abitazioni popolari (Antica Locanda Roncaglia), ma anche a quattro nelle costruzioni signorili (Bibliosteria di Cà Berizzi), rappresentano un forte elemento identitario e una componente irrinunciabile del paesaggio. Sostenuti da robuste capriate in legno, le lastre di pietra, posate per semplice sovrapposizione dalla gronda sino al colmo, attribuiscono alla copertura la classica forma del tetto a pagoda. Strutture robuste, massicce, impenetrabili. Un ingegnoso intreccio di travi e travetti costituisce l’ossatura portante del tetto. Le falde si presentano come un ordinato susseguirsi di lastre di pietra irregolari, affiancate e sovrapposte le une alle altre, leggermente inclinate verso l’esterno. Non c’è una pietra uguale all’altra e ciascuna di esse è stata presa in mano e sbozzata dal pecapride: eppure l’insieme di questi pezzi lapidei irregolari e diversi, una volta posati, trasmette un’idea di perfezione e di completezza. Ol camì, ol büs dol gat ( il buco del gatto), la piccola feritoia per l’uscita sul tetto, e pèrteghe (pertiche) frangineve sono gli unici elementi aggiuntivi presenti in falda. Le gronde sono assenti sulle pareti di timpano e pure lungo tutto il perimetro delle costruzioni di minore importanza, mentre non mancano, di norma, sulla facciata principale delle case nelle contrade, poggianti sui travetti della lòbia (loggiato). La ricostruzione di un tetto in piöde è un’attività esemplare dell’artigianato locale delle costruzioni. Si muovono agili come gatti, quei pecapride sul tetto, quasi saltellando sui tempièr, armati di grossi scarponi ai piedi e di martello tra le mani. Distribuiti qua e là, sulla falda scoperta del tetto, deposte sui travetti di superficie, mucchi di lastre di pietra, appoggiate l’una sopra l’altra, attendono di essere collocate. Il pecapride, dopo aver sistemato dapprima quelle più consistenti in gronda, procede nel lavoro, quasi sempre in ginocchio, avanzando pian piano, col tetto finito, sino a raggiungere la colmégna (trave di colmo). L’artigiano dialoga con ciascuna pietra che si trova tra le mani, la osserva con cognizione, la batte col martello per ascoltarne il suono sordo o pieno, la gira e capovolge tra le mani per individuare il verso migliore d’appoggio, la confronta con le altre, infine la depone nel suo posto naturale. È come se quella lastra di pietra fosse sempre stata lì. Niente cemento, né altre tecniche di ancoraggio delle singole pietre: semplicemente esse vengono sovrapposte l’una sopra l’altra e circa l’ottanta per cento della pietra sottostante viene ricoperta da quella soprastante. Da almeno mille anni a questa parte, quassù gli abitanti delle Orobie hanno costruito i propri luoghi della vita e del lavoro, case e stalle, laboratori e botteghe. Sono stati capaci di dotarsi di strutture assai particolari, con quel poco che offriva loro la terra, trovando soluzioni empiriche efficaci a problemi strutturali non indifferenti, come le pendenze in falda del tetto, che possono raggiungere anche angoli di ottanta o novanta gradi, oppure il peso della copertura, che supera anche quattro quintali al metro quadrato di tetto. Occorrono, infatti, quattro metri quadrati di piöde distese in piano per coprire un metro quadrato di tetto, e lo spessore di ciascuna lastra varia dai due ai quattro centimetri, mentre le dimensioni possono andare dai venti per trenta sino ai cinquanta per settanta centimetri. Un’impresa non indifferente, se consideriamo pure il fatto che le singole lastre di pietra, una volta estratte dal sottosuolo e prima di essere utilizzate, venivano lasciate esposte agli agenti atmosferici almeno per tutta una stagione, affinché il caldo estivo e poi il gelido freddo invernale mettessero in evidenza tutte le eventuali microfratture interne che ne sconsigliavano l’impiego. I pecapride, con sapù e badìl, massa e lira (piccone, badile, mazza, palo da leva), avviavano lo scavo del nuovo edificio, mentre per la lavorazione delle pride (pietre) si ricorreva all’impiego di strumenti diversi (giandì - giandino, gógia -ponciotto -, scalpelli vari); per le piöde, invece, bastava ol martèl da mür (martello da muro), che il muratore utilizzava con maestria nel sagomare la testata di ciascuna lastra prima di posarla. Il tetto in piöde, dunque, non è solo un singolare elemento costruttivo, ma rappresenta molto di più: è uno dei principali elementi identitari che hanno caratterizzato e continuano a identificare il volto di luoghi e ambienti familiari, vissuti e solcati nei secoli da contadini e allevatori, boscaioli e pecapride, artigiani del legno e della pietra, che lo hanno modellato e reso attraente. Volti di case come di persone, nemmeno troppo dissimili nel carattere, schivi e austeri; tetti in piöde come bandiere, svettanti in cima alle piccole torri di montagna, a protezione delle famiglie e di un ambiente umanizzato e… tanto amato.





























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