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LA LEGGENDA DEL MONTE AVARO
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LA LEGGENDA DEL MONTE AVARO
CUSIO (Valle Averara)
I Piani dell'Avaro (m. 1702) con il suo albergo-rifugio. |
Parecchi anni fa il monte apparteneva a un tale di Cusio,
un Paleni o forse un Rovelli, o a un altro di quegli abitanti della piccola
comunità posta alla sommità della Valle Averara. Una cosa è certa: quel tale
era una persona assai gretta e taccagna ed era conosciuto in tutta la valle, e
anche fuori, proprio per la sua non comune avarizia, al punto che la gente
aveva preso a chiamarlo "Avaro"
o, peggio, "Avarù". Veniva segnato a dito perché faceva i salti mortali
per non pagare le tasse e per giunta non sganciava mai un soldo per contribuire
alle necessità della parrocchia, anzi, per paura di dover fare l'elemosina al
sagrestano, si era ridotto a non andare nemmeno più in chiesa. La cosa suscitava le critiche severe del parroco e i commenti scandalizzati dei
compaesani che cominciarono a non rivolgergli più la parola e ad evitarlo,
costringendolo a vivere da solo come un eremita tra le sue ricchezze.
L'avaro era proprietario di un alpeggio dove portava ogni
anno la sua mandria, ma il pascolo era piuttosto sterile, essendo ricoperto di
grossi macigni sparsi dappertutto, tanto da assomigliare quasi a una vasta
pietraia in cui facevano capolino, qua e là, radi ciuffi d'erba. La gente, che
conosceva lo stato non proprio florido di quel monte, ne parlava spesso, in
termini non certo compassionevoli, quasi a voler sottolineare la rivincita
dell'alpeggio sulla taccagneria del suo proprietario. "Chèl che s' fa 'l
vé rendì" (Quello che fa gli viene reso) esclamavano furtivamente gli
altri mandriani con malcelata(1) soddisfazione quando vedevano tornare dal monte
le bestie dell'Avaro, stanche e ridotte a pelle e ossa. Col passare degli anni,
per analogia con l'indole del suo proprietario, i cusiesi presero a chiamare
quell'alpeggio "il Monte Avaro"…avaro come il suo padrone!
Un'estate nella quale l'erba era più scarsa del solito e le
mucche avevano grosse difficoltà a nutrirsi, il mandriano fu preso dalla
disperazione e una sera, seduto fuori dalla sua baita, più avvilito che mai,
mormorò fra sé: "Darei la mia anima al Diavolo se in cambio potessi
ripulire la montagna da tutto questo pietrame". Non aveva nemmeno finito
di pronunciare queste parole che, alle sue spalle, sentì un forte boato che
fece tremare la terra. Vicino a lui si aprì un profondo cratere da cui uscì,
avvolto in una densa nuvola nera, il Diavolo in persona, con le sembianze di un
immane e orrendo caprone, sotto un velloso(2) arruffio(3) di peli lunghi e ricciuti
dai riflessi rossastri; le enormi cosce equine finivano con stinchi e unghie
fesse(4) da caprone, mentre le braccia aperte appoggiavano le vaste mani adunche(5) e splendenti come brace agli spigoli della roccia, che friggeva liquefacendosi e
sgocciolando come cera. La grossa testa caprina s’appuntiva in una barbetta
fuligginosa e sfilacciata, mentre sulla fronte spettrale livida e pelata si
ergevano due corna tozze con le punte divaricate e rovesciate indietro. Sotto
l’arco enorme di sopracciglia cespugliose color ocra gialla, le occhiaie si
sprofondavano in un imbuto verdastro, in fondo al quale brillava sinistramente
una pupilla di fuoco, iridata di rosso sanguigno.
Tra due zigomi cadaverici, nasceva un naso adunco come il becco di un avvoltoio, con le narici dilatate e scoperte come due piaghe oblunghe e purulente. Sotto il naso, radi peli rossicci e setolosi come baffi leonini, sormontavano una bocca larga fino alle due orecchie enormi, a conchiglia; dalle labbra, schifosamente gonfie e bavose, uscivano quattro zanne corrose, giallastre, adunche come quelle del cinghiale; quando apriva quella voragine esalava zaffate di vapori densi e puzzolenti. "Ai tuoi ordini: - gridò con voce cavernosa rivolto all'avaro, impietrito per lo stupore e lo spavento - dammi la tua anima e io ti ripulisco il monte così bene da farlo diventare il pascolo più bello di tutta la vallata”.
Occhi curiosi ci osservano sempre! |
Tra due zigomi cadaverici, nasceva un naso adunco come il becco di un avvoltoio, con le narici dilatate e scoperte come due piaghe oblunghe e purulente. Sotto il naso, radi peli rossicci e setolosi come baffi leonini, sormontavano una bocca larga fino alle due orecchie enormi, a conchiglia; dalle labbra, schifosamente gonfie e bavose, uscivano quattro zanne corrose, giallastre, adunche come quelle del cinghiale; quando apriva quella voragine esalava zaffate di vapori densi e puzzolenti. "Ai tuoi ordini: - gridò con voce cavernosa rivolto all'avaro, impietrito per lo stupore e lo spavento - dammi la tua anima e io ti ripulisco il monte così bene da farlo diventare il pascolo più bello di tutta la vallata”.
L'Avaro, che fino a un attimo prima avrebbe accettato di
scendere a patti col Diavolo, adesso, di fronte alla prospettiva di vedere
concretizzato il suo sogno, fu preso dal panico. In fin dei conti la sua anima,
sul punto di diventare merce di scambio per una banale questione d’interesse,
doveva pure avere il suo valore se il principe delle tenebre era disposto a
sobbarcarsi una fatica così improba per averla. E poi si ricordò che il suo
parroco, quelle poche volte che aveva avuto l'occasione di sentirlo, durante la
messa o la dottrina, ripeteva sempre che l'anima è infinitamente più preziosa
del corpo, vale molto di più di tutte le ricchezze terrene e per giunta è
immortale: "Chi perde l'anima andrà all'Inferno, dove dovrà bruciare per
tutta l'eternità!". E adesso lui stava addirittura cedendo volontariamente
la propria anima al Diavolo, per accrescere la ricchezza terrena: "Ma
l'anima è importante, non voglio perderla, non voglio andare a bruciare
all'Inferno". Il suo interlocutore, vedendolo titubante, lo incalzò: "Ma
va' là, non dare ascolto a tutto quello che ti dicono. E' tutta una scusa
inventata dai preti per carpirti(6) i tuoi soldi e impedirti di godere appieno
delle gioie della vita". E stuzzicando la sua avidità, soggiunse: "E'
un affare da non perdere, pensa ai soldi che ne potrai ricavare, prova ad
immaginare quanti anni ti ci vorrebbero per fare questo lavoro da solo,
considera invece che già da questa estate tu potrai far pascolare le tue bestie
su un terreno tutto dissodato e fertile". L'uomo si voltò ad osservare il
vasto pianoro disseminato di macigni e lo immaginò per un momento tutto coperto
d'erba verde e di fiori, con la sua mandria intenta a pascolare al suono dei
campanacci. Questa visione fu talmente convincente che alla fine l'avaro
cedette e accettò il patto col Diavolo. Però pose una condizione: "Ebbene,
se dall’Ave Maria (Berlicche si contorse ululando) di questa sera a quella di
domani mattina, tu mi dai il monte ripulito,… ebbene, sì, alla mia morte,
l’anima mia sarà tua. Ma, intendiamoci bene, io lo voglio così netto che non
rimanga traccia di ghiaia; e anche queste rocce più grandi e quelle laggiù, le
voglio via…, altrimenti tu non avrai alcun diritto sulla mia anima". Egli
era infatti convinto che sarebbe stato impossibile, non dico finire, ma anche
solo arrivare a metà di un lavoro così improbo, per cui, alla fine gli sarebbe
rimasta la sua anima e avrebbe avuto il monte almeno in parte ripulito. Era
meglio che niente. Ma non aveva fatto i conti con l'astuzia del Diavolo che non
aveva precisato in quanti sarebbero stati a svolgere questo lavoro. Così,
appena furono calate le tenebre, il Monte Avaro si riempì di ombre che si misero al lavoro di buona lena e in
assoluto silenzio. Erano decine di figure demoniache con corpi deformi, obesi e
scheletrici, arroventati e vellosi, dalle cui bocche mostruosamente armate di
dentature ghignanti, col puzzo, il fumo e le vampe serpentine, uscivano anche muggiti, ruggiti e ululati spaventosi; dai loro occhi emanava una luce diafana(7) che illuminava sinistramente la notte.
Ampia vista dal sentiero che porta ai Laghetti di Ponteranica (m. 2115). |
“Contali!” gracchiò imperioso Berlicche, apparendo improvvisamente di fianco al povero Avarone che, più morto che vivo, ubbidì come un
automa.
“Uno, due, tre,… sono novantotto” rispose tremando come una
foglia.
“Lo so” soggiunse Berlicche “ne mancano due: Soffione e Sansone.
Ora sono occupati altrove, ma a mezzanotte saranno qui”. Poi, volgendosi ai
suoi compari, diede loro il via con un cenno imperioso del capo. I macigni venivano sradicati uno dopo
l'altro dalle braccia muscolose dei diavoli e fatti rotolare giù per la
montagna; la ghiaia grandinava ovunque giù per i dirupi dei canaloni. Il lavoro
procedeva speditamente e l'avaro cominciò a temere che sarebbe stato portato a
termine entro il tempo concordato. Infatti sul far dell'alba l'impresa era
quasi ultimata: mancavano solamente dei ghiaieti e delle rocce enormi piantate in mezzo al pianoro. “Queste”
pensava “non riescono a smuoverle neppure i diavoli, e se restano io sono
ancora salvo”. Ma ecco farsi avanti altre due figure colossali e mostruose:
Soffione e Sansone. Quest’ultimo, armato di una mazza ferrata simile al tronco
di un noce con la sua ceppaia all’estremità, si mosse senz’altro a calare colpi
rimbombanti sulle rocce rimaste, frantumandole; l’altro, curvandosi sopra la ghiaieta di un canalone, si mise a soffiare con tanta possanza dalle sue gote
gonfie e capaci come otri, che le pietre e i ciottoli volavano via come foglie
secche portate dalla bufera.
L'Avaro si sentì perduto. Ripensò con terrore alle parole
del suo parroco e si vide dannato tra le fiamme dell'Inferno. Allora si pentì
di avere stretto quel patto scellerato col Diavolo, ma forse non era troppo tardi. Approfittando
del fatto che Berlicche s’era voltato per vigilare la sua ciurma, il mandriano
fece un ultimo tentativo per salvarsi: si segnò, si raccomandò l'anima al
Signore e recitò un'Ave Maria. Poi, colto da un'improvvisa ispirazione (il suo
Angelo Custode, avendo pietà di lui, certo lo sostenne), prese a correre alla
disperata giù per la montagna, nell'estremo tentativo di arrivare a Cusio e
suonare le campane prima che l'opera dei diavoli fosse terminata. Una corsa
affannosa per sentieri impervi e fitti boschi, e finalmente poté arrivare in
paese, stracciato, pesto e sanguinante per tutto il corpo. Sempre correndo si
diresse verso l'abitazione del sagrestano.
“Venite Matteo, discendete, presto! Portate la chiave della
chiesa; soniamo l’Ave Maria; c’è il Diavolo sul monte che mi vuole portare
via!”.
Un'altra breve corsa verso la chiesa e, per un passaggio
interno, nel campanile. L’Avarone si attaccò alla corda della campana più
grossa e, ridendo, giù a tirare: don… don…don… Appena in tempo: ecco levarsi
dal campanile di Cusio il primo rintocco dell'Ave Maria. Ancora pochi secondi e
il lavoro sarebbe stato compiuto, invece un macigno era ancora lì, ai margini
del pianoro. Il Diavolo dovette ammettere la propria sconfitta: diede un ululo
così spaventoso che tutti i diavoli bestemmiando, urlando, urtandosi e
accavallandosi, con assordante frastuono, sprofondarono, in un solo mucchio
fiammeggiante, nel cratere apertosi sotto di loro e tosto richiusosi.
Sansone, che aveva spaccato in due l’ultima roccia e ne
aveva sollevato una metà per lanciarla
lontana, la lasciò cadere di schianto accanto all’altra metà, così come si
trova ancor oggi con su, visibilmente, le impronte di grinfie enormi. Sotto le
potenti ardenti vampate di Soffione, il terreno era diventato così arido e duro
che, per quanto lo si concimasse, è sempre rimasto tanto scarso di erba, che lo
hanno chiamato Monte Avaro, a causa della stentata vegetazione e in memoria
dell’Avarone.
Intanto l’Avarone , attaccato alla corda di quella campana,
continuava a tirare ridendo e piangendo, finché svenne. Non si sa che fine
abbia fatto: qualcuno afferma che, pentitosi della sua vita gretta e senza
senso, diventò un benefattore della sua comunità, ma è probabile che, divenuto
ancora più tirchio ed egoista, abbia finito i suoi giorni solo e abbandonato,
senza poter gustare appieno la tranquillità della montagna.
Forse il suo spirito si aggira ancora oggi, insoddisfatto,
cercando inutilmente di disturbare con la sua presenza l’allegria degli
escursionisti e degli sciatori che d'estate e d’inverno godono della bellezza di quella
montagna.
I laghetti di Ponteranica. Sullo sfondo il Passo S. Marco (m. 1992): è il passo stradale più alto della provincia di Bergamo e collega la Val Brembana alla Valtellina. |
(1)Sentimento che non si riesce a contenere, a reprimere, a tenere nascosto, che risulta evidente nonostante lo si vorrebbe nascondere.
(2)Coperto di lana.
(3)Disordine continuato e caotico; vistoso scompiglio.
(4)Unghie “fesse”, cioè con lo zoccolo non tagliato.
(5)Piegate in punta come un uncino.
(6)Prendere, sottrarre, portare via con destrezza, di
sorpresa, con l’inganno.
(7)Trasparente, chiara.
"Disputare col Demonio non potrà esserti
di alcuna utilità.
di alcuna utilità.
Ha cinquemila anni di pratica.Conosce tutti i nostri punti deboli".
Luther: genio, ribelle , liberatore.
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