mercoledì 15 luglio 2015

S. MARIA ASSUNTA - LOCATELLO
11. GOCCE DI STORIA (prima parte)

  Se guardiamo la carta geografica della nostra zona, troviamo da una parte le Valli Brembilla, Taleggio, Brembana e Villa D’Almè, arrivando fino a Bergamo; dall’altra la Valle S. Martino, Caprino Bergamasco, Pontida e la riva dell’Adda; nel mezzo la Valle Imagna, i cui paesi - racchiusi tra due vallate - conoscono storie tra loro molto simili.

  Sappiamo che questa zona iniziò ad essere popolata e abitata in tempi molto antichi grazie ai numerosi ritrovamenti fossili nel torrente Imagna e in alcune grotte, in primis la Corna Coegia. Nella preistoria, regno dell’Ursus spelaeus od orso delle caverne, sono stati trovati dei suoi reperti come un cranio, dei denti e dei resti umani appartenenti ad un individuo giovane di sesso femminile. Dell’età del rame (2500-2000 a.C.) degli utensili (pugnale in selce, pendagli in osso, in rame e in conchiglia). Dell’età del bronzo (1800-1100 a.C.) un vaso in terracotta, un rasoio quadrangolare in bronzo, numerosi frammenti di ceramica, delle punte di freccia, delle suppellettili in osso. Il territorio della Valle presenta il più alto numero di cavità naturali della provincia bergamasca che venivano utilizzate come abitazione o per seppellire  i cadaveri e  che ci ribadiscono la presenza dell’uomo in questo territorio.   

  All’incirca cinque secoli prima di Cristo un capo celta, Brenno, giunse a Bergamo. Ritenendo che la città potesse rappresentare un'ottima base strategica per il controllo delle valli e dei commerci che da lì si sviluppavano chiese la sottomissione dell'abitato. Al rifiuto reagì espugnandola e radendola al suolo: ancor oggi in alcune vallate della bergamasca i muri cadenti o pericolanti sono chiamati “bregn” o “breni”, in ricordo di questo antichissimo evento.
Bergamo, in dialetto bergamasco, si dice Berghem quasi esattamente come in celtico “berg-heim” che vuol dire la città elevata.
In alcuni nomi e parole del dialetto della valle ci sono delle parole che sono esattamente uguali ai termini del linguaggio dei Celti. Alcuni nostri nonni dicono ancora oggi: ”Vuoi il “brombo?” per dire l’acqua e il “Tata” è il papà. Questo linguaggio, rimasto tale e quale, ci riporta proprio ai vocaboli celtici:  per questo abbiamo la sicurezza attraverso i toponimi, cioè lo studio del significato e dell'origine di un nome proprio, che qui siano vissuti i Celti.
Lo stesso Brenno si suicidò annegandosi nel fiume che da lui prese il nome di Brembo.

  Quando i primi abitanti arrivano in questo luogo non siamo ancora nell’anno 1000. Bergamo e la sua pianura sono interessate da una sequenza spaventosa e tremenda di invasioni degli Ungari: un popolo nomade e invasore che, dove arrivava, razziava, saccheggiava e devastava.
Molti abitanti della “bassa bergamasca” scapparono verso la montagna e verso luoghi che ritenevano più sicuri. Dalla frazione di Locate – fate attenzione a questo nome - di Ponte S. Pietro salgono verso Mapello, Pagazzano e, scappando, arrivano in questa zona  portando con sè un pezzo del loro vissuto: le loro tradizioni, i loro usi, i loro costumi, il nome del paese. Nelle varie lingue che si sono sovrapposte questo nome è stato preso e sviluppato in modo armonico: leuk il tema originario, lukos in greco, lucus in latino, leuco in gallico, leucos in celtico, loeugh in longobardo, löck in germanico. In tutte le lingue ha lo stesso significato: un prato circondato da un bosco, una radura.
Attraverso questo nome arriviamo a questo Locatellus in tardo latino, riferito alla località  Locate di Ponte S. Pietro,  che nel tempo diventerà Locatello. Per la loro parlata, distinta dalle altre popolazioni presenti, hanno meritato il titolo di “baelòcc”.
Portano con sé anche le loro devozioni: alla Madonna, a S. Stefano e a S. Girolamo. Queste tre devozioni, che gli studiosi della storia di Locate hanno rinvenuto nel passato, le ritroviamo sui muri della nostra Chiesa di Locatello: un affresco interno, vicino all’ingresso della parete sud, dove c’è la Madonna (bellissimo il suo sguardo!) con Bambino e due affreschi esterni, sopra l’altro ingresso della parete nord, S. Stefano e S. Girolamo.

  Sicuramente, verso l’anno 1000, a Locatello c’era una piccola Chiesa, costruita da queste famiglie giunte dalla “bassa bergamasca”, che avevano bisogno di avere un proprio punto di riferimento. Non c’era il Comune, non c’era la struttura amministrativa come oggi: era la Chiesa che costituiva il cuore di quella comunità.
Non ci sono rimaste tracce di quella Chiesa, ma ne abbiamo di una successiva quattrocentesca, della quale alcuni storici locali fanno cenno e di cui sono rimasti come “impronta” gli affreschi della Madonna e dei Santi.

  Ciò che in passato rendeva straordinaria questa valle, facendone oggetto di contesa per molti, erano gli strategici valichi di passaggio. Troviamo un elenco di queste  strade in un documento manoscritto del 1547 tra cui spicca la “Cavalcatoria” che, percorrendo il lato idrografico destro della valle, da Almenno portava a Brumano e, per il Passo del Palio, in Valsassina.

Altro tracciato importante di collegamento con la Valle Taleggio era la strada che da Locatello portava a Gerosa attraverso “la al del Put” (Val Tinella) con il ponte omonimo, tuttora esistente, che fu il primo ad essere costruito nella valle e citato in un documento del 1538. Lungo la “Strada Imperiale”, che da Brumano portava a Lecco, si doveva passare per tre passi: la “Porta di Brumano” (Porta Bordenale nella cartografia del 1700), la “Passata” (Golla di Porcherola), il Passo del “Fo”.
Un altro celebre passo, quello del “Pertus”, consentiva il passaggio tra la Valle Imagna e la Val S. Martino. Anche il Valico del “Grassello”, situato nel territorio di Fuipiano, tra lo Zucco di Valbona e i Canti, aveva la sua importanza nel mettere in comunicazione con la Val Taleggio.
Un ruolo fondamentale in tal senso era giocato dal Ponte di Almenno o di Lemine o della Regina longobarda Teodolinda. Bortolo Belotti nella sua “Storia di Bergamo e dei Bergamaschi” certifica l’attribuzione del ponte all’orgoglio e all’architettura romana: ”…ponte di Almenno fabbricato più di mill’anni”.

  Tuttavia nel 1493, l’anno successivo al viaggio di Cristoforo Colombo verso l’America, una rovinosa alluvione - una vera “ira di Dio” - devastò l’intera Valle Brembana, causando un’eccezionale piena del fiume Brembo: tutti i ponti della valle furono distrutti, tranne quello di Sedrina. L’effetto sul Ponte di Almenno fu il conseguente crollo di cinque archi. Resistettero solo le tre arcate centrali, sopra le quali rimasero “…trentasei persone in continuo batticuore… durò la furia tre giorni, onde fu necessità gettar a quei miseri il pane con le fiombe per il loro sostentamento, finché poi calata l’acqua, con scale e funi, s’aiutarono”. Le inevitabili conseguenze dei danni, subiti dalla struttura, furono l’interruzione dei traffici di merci da una valle all’altra insieme all’apertura verso i mercati di Milano e di Venezia. D’altra parte il territorio di Bergamo, posto in mezzo alle due città, è sempre stato da queste conteso.


  Sia il Ducato di Milano, sia la Repubblica di Venezia volevano infatti disporre di una città fortificata, che fungesse da caposaldo presso il confine. Anche la Valle Imagna si ritrovò così ad essere contemplata nelle mire espansionistiche di due potenze contrapposte. Quando  nel 1428 Venezia, guelfa, col favore di tutti i Valdimagnini e di tutti i guelfi di Bergamo, riuscì ad aggiudicarsi il governo della città che, peraltro, avrebbe governato benissimo, concesse ai cittadini della Valle Imagna alcuni privilegi, come ricorda Padre Donato Calci nelle sue “Effemeridi” del 1676/77: “…agli hommines di Valdimagna” e di Locatello ”per la loro integrità della fede e fedeltà alla Repubblica, difendendola contro il Duca di Milano, furono dal Doge con privilegi, grazie e favori arricchiti e onorati”. Infatti, una volta distrutti i nemici (i ghibellini pro Milano di Brembilla vecchia e di parte dell’omonima valle), il governo della Serenissima accordò, per esempio, l’esenzione dal pagamento del dazio sui trasporti delle merci. Nonostante questo riconoscimento, Venezia non ricostruì il Ponte di Almenno. Gli abitanti di Locatello e i Valdimagnini invocarono a più riprese la sua ricostruzione, ma al Doge non poteva certo interessare il ripristino di una via di sbocco verso Milano, quanto piuttosto rappresentare il solo referente.  Nel 1512 venne concesso di gestire un “porto” con il collegamento tra le due sponde effettuato da una barca.
Il ponte sarebbe stato ricostruito solo nel 1628 per iniziativa dei Comuni della Valle Imagna condannati, di fatto, a un isolamento durato ben 135 anni.


  Una relazione del 1596 e la lapide commemorativa posta nell’interno, documentano che nel 1561 fu consacrata in loco una Chiesa, dipendente dalla pieve (la comunità dei battezzati compresa entro un'organizzazione territoriale) di Almenno con l’antico titolo di S. Maria Assunta. La comunità parrocchiale di Locatello risulta  essere una delle più antiche della valle, tra le quali vengono annoverate anche la Chiesa parrocchiale di Corna dei Santi Simone e Giuda Taddeo e quella di Fuipiano di San Giovanni Battista. Il luogo dove oggi sorge era il Cimitero dell’alta valle: numerosissime furono le salme e le ossa dissepolte negli scavi eseguiti per ingrandire il sagrato.

  Gli abitanti della Valle Imagna sono un popolo molto fiero e hanno sempre avuto un grosso orgoglio e una gran voglia di avere delle cose belle da mettere in mostra. Diventata ormai piccola, per la popolazione diventata vecchia, e non più abbastanza importante si decide di costruire un’altra Chiesa. L’edificio attuale, consacrato nel 1912 dal vescovo Giacomo Maria Radini Tedeschi, che confermava l’antico titolo e sigillava nella mensa dell’altare maggiore le reliquie dei santi Alessandro e Innocente, fu innalzato negli anni tra il 1836 e il 1841 e già nel 1895 si provvedeva a prolungarla.  Viene abbattuta la facciata posteriore della Chiesa, che arrivava grossomodo dove ancor oggi c’è il pulpito, da dove avveniva la lettura ed il commento alla Parola di Dio, si tolgono tutte le pietre e si amplia a “piè di croce”. Questa è una Chiesa ad aula unica, senza la navata laterale, cioè lo spazio aperto secondario a lato di quello principale, separata da esso da un colonnato o porticato, ma lo stesso si dice a piè di croce. Si ricostruisce la faccia esterna in pietra viva squadrata a punta, ottenendo l’attuale grande Chiesa, enorme per il paese odierno.
Le quattro cappelle finali non sono degli altari, ma sono praticamente dei tabernacoli, in seguito ornati con un’immagine sacra.
Il campanile è sorto nel 1823 “Concordia populi aedificavit”. Un primo concerto di cinque campane “battezzate” dal vescovo Pier Luigi Speranza, fu reintegrato dopo la guerra da Luigi Magni di Lucca e successivamente rifuso da Angelo Ottolina nell’attuale concerto di otto campane in “re b.”, consacrato dal vescovo Adriano Bernareggi nel 1952.
E’ una Chiesa, se mi si può passare il termine, “fuori misura” rispetto alla realtà per la quale è stata costruita, sia per il modesto numero di abitanti, sia per la fede oggi in netto calo. Ma questo fatto la dice lunga proprio sulla fierezza e sulla voglia degli abitanti di avere una Chiesa bella e importante. A Corna la Chiesa è grande  più o meno come quella di Locatello, o forse ancor più ampia e gli abitanti ancor più pochi: è proprio questa la grande voglia di avere  cose belle da mostrare. Ma fu nel anni 1930-1932 che la Chiesa si assicurò l’attuale splendore, grazie all’intraprendenza e alla generosità di don Sebastiano Vanotti, parroco di Locatello per ben 57 anni di apostolato. L’incarico e la direzione dei lavori per realizzare questa chiesa “moderna” viene  affidato all’ingegnere e architetto per  eccellenza Luigi Angelini (Bergamo 1884 – Ivi 1969): un personaggio straordinario di Bergamo, una persona che ha amato fortemente la sua città e quindi, quando lavorava, ci metteva ”…anche l’anima”.
Viene interpellato e gli si richiede un progetto e disegna l’elegante cupola del presbiterio. E’ un progetto molto interessante, perché non è una cupola singola, ma con attorno anche un catino absidale. E’ difficile vedere queste unioni di forme geometriche diverse che, messe insieme, danno un senso di profondità e ampiezza veramente incredibili. Luigi Angelini progetta anche i quattro altari laterali, che vengono ingranditi rispetto a “qualsiasi corpo” ci fosse stato prima.
La portella del tabernacolo dell’altare maggiore, in legno dipinto con fregi scolpiti e dorati, nel presbiterio, tra l’altro molto profondo, molto ampio, molto grande come struttura con abbondante spazio, è di Renato Bonizzi (1931) e i cinque gradini erano sormontati da una balaustra in marmo.

  Interpella gli artisti e i decoratori più importanti dell’epoca, tutti bergamaschi. In modo particolare, chiama due artisti  straordinari: Pietro Servalli (Gandino 1883 - Bergamo 1973) che dipinge la Gloria di Maria Assunta nella  grande tazza della cupola e  Vittorio Manini (S. Omobono 1888 - Bergamo 1974) che dipinge la prima medaglia all’ingresso principale, la più smagliante di tutte, nella volta fatta a “botte”. Dipinge anche l’affresco del catino absidale, gli Evangelisti, tutte le altre raffigurazioni che vediamo e le quattro tele nelle cappelle finali. Servalli è un grande e bravissimo pittore; il Manini potrebbe essere un artista straordinario, conosciuto quanto meno in tutta Europa, ma è un uomo molto chiuso e molto timido. La moglie, una Mazzoleni, cerca più volte di introdurlo nell’aristocrazia milanese per fargli fare un po’ di fortuna e, probabilmente, anche un po’ di soldi, ma lui ama talmente il suo paese al punto di rimanere “chiuso” in esso e, di fatto, autolimitarsi. La nostra squadra di artisti comincia a dipingere, regalando a noi posteri una Chiesa con opere d’arte moderna.

   Gli abitanti di Locatello e, in generale, tutti i Valdimagnini, inviano, comprano, progettano, richiedono agli artisti delle opere d’arte per la loro Chiesa: questa è una cosa straordinaria, che accade in tutti i paesi che vivono l’immigrazione. Quando un individuo deve trasferirsi dal suo paese, per poter vivere e mantenere la sua famiglia, mantiene un legame strettissimo con il suo territorio e cerca di  far giungere “qualche cosa” come per alimentare questo sentimento. A loro dobbiamo, ancor oggi, i nostri tre capolavori, ancora presenti nella nostra Chiesa: la tela (1523) di Andrea Previtali e quella (1536) di Agostino Facheris, detto il Caversegno, insieme ad una statua lignea del 1500 della Madonna seduta col Bambino. Altri due capolavori sono esposti in musei o in collezioni private: la croce astile del 1300 di Ugo Lorenzoni, detto Ughetto da Vertova e il trittico (1528-1530) di Giovanni Busi detto il Cariani.

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